I due trentenni
Ci sono persone che portano con sé cattive sensazioni; ma non ne soffrono, perchè le rovesciano sugli altri – spesso senza nemmeno accorgersene. Guardo la coppia che è appena salita sul vagone; lui in una specie di business casual, giacca camicia bianca e jeans, lei elegante da ufficio ma non da donna in carriera, forse una impiegata di livello medio alto in una grande agenzia di assicurazioni, o in un’azienda informatica. Avranno una trentina d’anni o poco più, sembrano di quelli che questa sera happy hour, domani palestra, dopodomani analista, fra tre giorni kebab e poi cinema, fra quattro happy hour e per il weekend vediamo se Liguria o un agriturismo in Toscana, e avanti così in una coazione a ripetere che chissà perchè tanti invidiano. Lui alterna un’occhiata al Blackberry ad una scorsa delle pagine di Repubblica, ogni tanto fa un gesto strano – si passa l’indice della mano destra sulla guancia sinistra, una specie di contropelo della barba di tre giorni. Ma quella che attira davvero la mia attenzione è lei. Sembra una di quelle donne che vive in perenne stato di tensione, come caricata a molla di paranoie, inadeguatezze e troppe puntate di Sex & the City. Dal momento in cui lei gli chiede qual è la fermata alla quale dovranno scendere e lui risponde “Porta Venezia”, lei apre la bocca e non la chiude più. La ascolto affascinato elencare l’agenda della sua giornata lavorativa, e poi quella delle serate della coppia, per poi passare a una tonnellata di fiele su una nuova collega chiaramente minorata mentale e ciò nonostante – o forse proprio per questo – di gran successo con quei deficienti del marketing, ad una considerazione acida sulla telefonata ricevuta la sera prima dalla madre – ovviamente etichettata come “vecchia rincoglionita” -, ad un’autocommiserazione professionale che occupa il tragitto tra Lotto e Amendola-Fiera. Lui, che non pare il classico sfigato succube da film di serie B, ogni tanto butta lì una mezza frase di normale buon senso, si capisce che non solo non ha voglia di discutere alle otto del mattino: soprattutto sembra sfinito dalla vacuità e dall’insensatezza delle lamentazioni che sta ascoltando, è evidente che pensa che quella nuova collega molto probabilmente non sarà soltanto una sgallettata che fa carriera facendosi scopare da tutti e sei i componenti del reparto marketing ma sarà una capace di fare bene il suo lavoro per dieci ore al giorno, che lui la palestra la scansa come una malattia infettiva, che la madre di lei è una donna normalissima che vuole bene alla figlia e che ha le normali fissazioni di una settantenne. Soprattutto è chiaro, chiarissimo che lui desidererebbe solo un sorriso, o in alternativa un po’ di silenzio. Mentre ringrazio Dio o chi per lui per il non dover condividere nemmeno mezz’ora del mio tempo da single con una così perfetta esemplare di quelle che i giornali che ti spiegano come vivere alla grande chiamano thirty-something, il treno entra nella stazione di Cairoli, e come ogni mattina si riempie del profumo delle brioches calde vendute dal bar del mezzanino. E lì, in quel momento, proprio quando il treno è ormai fermo e le porte del vagone si stanno per aprire, accade il miracolo; lui la guarda, rimette il Blackberry nel taschino della giacca, e con la massima tranquillità le dice, a voce abbastanza alta perchè lei lo possa sentire e capire “Beh, sai cosa c’è? Vaffanculo”. Ed esce, e mentre esce è come se la gente lo facesse passare, come una specie di picchetto d’onore, come le acque del Mar Rosso davanti a Mosè. Io vorrei alzarmi e corrergli dietro, arrivare tardi in ufficio pur di toccargli la spalla e dirgli bravo, bravo cazzo, andiamo che ti offro un caffè, ma lui probabilmente mi guarderebbe con un’aria un po’ triste e non mi risponderebbe perchè non dev’essere uno che ama litigare, e così io mi limito a guardare lei che rimane impalata e basita, che ricaccia le lacrime di rabbia e frustrazione e sorpresa, che lo maledice in silenzio per tutti i dieci minuti che ci vogliono da Cairoli ad arrivare a Porta Venezia, cinque fermate di sofferenza e vergogna – e però, bella mia, sai come si dice, chi semina vento raccoglie tempesta, prova a chiedere a tua madre se se lo ricorda questo proverbio, la prossima volta che ti telefona.
April 13th, 2009 at 17:20
Bravò.
April 13th, 2009 at 17:40
Mh, tutto un po’ troppo clichè. Clichè di persone, certo, ma anche cliché di racconto.
April 13th, 2009 at 17:56
Mi piace la parte soprattutto in cui lui sbotta un liberatorio vaffanculo, che tanti vorrebbero dirlo e mica sono solo uomini. Sono anche donne, stanche di mariti acidi e privi di attenzione e uomini, come racconti tu sopraffatti da una acida che pensa che il mondo sia ai suoi piedi. Ci avrei dedicato più tempo al momento in cui lui sbotta, che è una liberazione. E per fortuna c’è chi si libera.
April 13th, 2009 at 18:06
Fata, lui è quello che mi interessa meno. E comunque, trova il coraggio di fare una cosa per lui contronatura. Ma non ne va orgoglioso, io credo, nè credo che si senta molto meglio. Un po’ più libero, giusto quello.
April 13th, 2009 at 18:13
Allora vuol dire che ho cannato io il tuo racconto, non l’ho capito bene.
Scusa, sir
April 13th, 2009 at 18:26
ho letto il blog di antonella e devo confermarlo: il tuo racconto è un cliché, fatti un giro da lei ed incassa la tua bella lezioncina di originalità.
April 13th, 2009 at 19:31
Standing ovation di 78 minuti.
April 13th, 2009 at 21:32
A me è piaciuto «ma lui probabilmente mi guarderebbe con un’aria un po’ triste e non mi risponderebbe perché non dev’essere uno che ama litigare». Sarà per quello che ha tardato tanto a dire quel liberatorio vaffanculo.
April 13th, 2009 at 22:53
È curioso, l’altra sera ero in un locale e c’era qualcosa come una festa di trentenni, appunto, facciamo trentacinque. Beh, sono una generazione affascinante… quelli della festa sembravano dentro qualcosa che non era loro.
E mi è venuto da sorridere, pensando che passano le loro serate da trentenni a cercare di sentirsi diciannovenni, perché quando di anni ne avevano diciannove dovevano fare i grandi.
April 13th, 2009 at 22:59
bravò anche da qui
April 14th, 2009 at 05:42
Da chiedersi se nelle metropolitane (di tutto il mondo eh) girano i cliché descritti, ma descrivere cliché in un racconto cliché bisogna comunque essere capaci. Essere originali viene sempre più facile ricordiamocelo in specie per la banda di psicolabili che scrive, ha blogs, fa rete e non vede gente. Sir la gente la vede perché viaggia quindi contempla e origlia. Poi che la gente sia cliché…c’è da aprire un approfondito dibattito non credete? se viaggiate e vi guardate attorno non è che siamo così originali…anzi…purtroppo…benché…
Poi il racconto-foto se uno viaggia in Milano sui mezzi pubblici la mattina presto è un classico.
April 14th, 2009 at 08:54
ma se per cliché uno intende un luogo comune che non ha riscontro nel particolare vuol dire una cosa; se si intende uno stereotipo che però deriva da una tipologia di persone esistenti è un altro discorso.
A me quelle persone lì sembrano molto verosimili; se poi sono assimilabili a uno stereotipo non è mica colpa del narratore.
E comunque a me questi sguardi di squonk piacciono, sarà che osservare le persone è un bel passatempo, trovo
April 14th, 2009 at 13:50
Sa, solitamente non mi fa molta differenza: ma stavolta sono molto curioso di sapere se lei abbia davvero assistito a un episodio del genere.
April 14th, 2009 at 14:07
Caro Lester, la risposta è “sì” e “no”. Così come l’ho descritta, no. Ma la descrizione è un mix di situazioni e frasi assolutamente reali, non necessariamente verificatesi in un vagone della metropolitana, opportunamente assemblate.
April 16th, 2009 at 20:17
ti leggo spesso
delle volte arrivo in fondo, delle volte no.
la mia vita ha un altro sapore da quando ho letto Benjamin che mi ha spiegato cos’è un flaneur, io la flanerie la applico con costanza mentre viaggio, e mi piace trovarla nei tuoi racconti.
così, solo per dirtelo, scrivi cose interessanti, spesso 🙂
April 21st, 2009 at 15:52
bello.