Facce
Quando entro al Cimitero Monumentale – uno di quei rari posti per i quali le maiuscole del nome sono giustificate – ci sono trentacinque gradi e il silenzio della città che aspetta l’ombra e l’ora dell’aperitivo. Non è la prima volta che vengo qui. Di solito lo faccio come se fosse un museo, una lunghissima galleria di statue e dipinti e bassorilievi che non ti fanno pensare né alla tristezza della morte né alle corse a volte felici della vita. Questa volta, invece. Guardo le espressioni delle statue, guardo le foto sulle lapidi. Mi pare di vedere e di sentire com’era davvero questa città quando era ancora Milano. Non sorridevano i cavalieri e i ragionieri e i dottori ingegneri, non sorridevano le madri amorevoli e i padri probi, non sorridevano le lavoratrici indefesse e i soldati eroici che morivano nel 1914 o nel 1927 o financo nel 1954. Non sorridevano, ma non avevano l’aria triste, né incattivita. Avevano quella faccia che sembrava dire “avevo un lavoro da fare, l’ho fatto, sono contento e in pace”. Penso alle fotografie di questi anni – le mie, quelle dei miei amici, quelle delle persone che conosco – penso alle facce che vedo – la mia, quelle dei miei amici, quelle delle persone che conosco – e mi pare che espressioni così non se ne vedano più. Siamo sempre ingrugniti, con la faccia di “la vita è uno schifo e noi siamo qui per soffrire”, oppure sorridenti da un orecchio all’altro, con la faccia di “è tutto magnifico, non si vede?” – e alla fine sembriamo sempre in posa. Mi chiedo cosa scriveremmo sulle nostre tombe, cosa scriverebbero di noi quelli che ci conoscono, cosa penseranno di noi i visitatori dei cimiteri del futuro guardando le nostre fotografie. Mentre esco incrocio una comitiva di turisti francesi. Dal parcheggio si vede l’inizio di viale Pasubio, e dietro quei palazzi Corso Como, si preparano le pizzette dell’happy hour.