Andiamo a pranzo in un piccolo ristorante sul lungofiume. Parliamo un po’ di lavoro, poi – senza dircelo – pensiamo che abbiamo tutto un pomeriggio di discussioni che ci attende, e anche un pezzo di domani mattina, e viriamo su storie personali, racconti dei nostri paesi, cose così. Riko mi dice che è nato perchè suo padre nel ’53 ricevette una lettera dall’esercito che lo avvisava della possibilità di essere richiamato in vista di una guerra con l’Italia – e insomma i suoi si presero paura e decisero di avere un figlio prima che fosse troppo tardi. Daniel è nato e cresciuto a Buenos Aires, e aveva un’azienda florida andata in rovina in una delle catastrofiche crisi economiche argentine: suo padre gli disse che la Slovenia era un posto magnifico, che trasferirsi era una grande opportunità per riscoprire le sue origini, che Ljubljana era una città dove valeva la pena vivere – e così nel dicembre di cinque anni fa lasciò i trentasette gradi dell’estate argentina e si ritrovò nella European Cloudiest Capital: “ho visto il sole per la prima volta dopo più di tre mesi che ero qui, prova ad immaginare”. Mi raccontano dell’incomunicabilità fra sloveni e croati, tra croati e serbi, di confini e passaporti: faccio quattro conti e realizzo che di questo paese so pochissimo anche se per arrivarci ci impiego meno che ad andare a Perugia. Mi rallegra l’idea di sapere di doverci tornare almeno due volte prima dell’estate.