Invisible Sun
La prima mattina di nebbia era una mattina di domenica, assonnata e confusa. Era una nuvola umida con la consistenza e il calore umido di una coperta di pile. Stette prima alla finestra, fino a quando gli occhi gli si riempirono di piccoli prismi colorati, poi si vestì con calma, si infilò un giubbotto leggero e uscì di casa. Camminò sul marciapiede, passò l’incrocio, attraversò il parco giochi, sfilò a fianco del ristorante cinese, sempre con le mani in tasca e la testa svuotata. Quando imboccò il lungo viale alberato alzò gli occhi verso il cielo. Era una nebbia luminosa, di quelle che lo facevano sentire a casa, che facevano percepire il sole invisibile su in alto, come nel primo autunno. Passò la grande entrata di pietra grigia, sentì i piccoli ciottoli della stradina scivolargli sotto i piedi, scese la scala scivolosa, si guardò intorno cercando il corridoio giusto e finalmente arrivò davanti alla lapide. Rimase per qualche minuto così, a fissarla, poi si mise a parlare a bassa voce, rivolgendosi a quella piccola fotografia sorridente, incorniciata in un ovale grande quanto un uovo. Raccontò della partita che avevano giocato su al campo della colonia alpina, del weekend che stavano progettando per la fine del mese – sai quello che c’eri anche tu, quello che hai guidato per trecento chilometri senza mai mettere la sesta dio solo sa perché -, della Juve e dell’Inter. In fondo al corridoio passò una signora anziana che si appoggiava a un bastone. Rimase in silenzio quando esaurì le cose da dire. Poi fissò la fotografia, mormorò vaffanculo senza rabbia, appoggiò due dita sul marmo e si voltò per tornare all’aperto. Forse, entro qualche ora la nebbia si sarebbe alzata.