No Time This Time
La sala d’aspetto della rianimazione è piccola e illuminata da neon glaciali. Sulle panche siedono una dozzina di persone. Passano la gran parte del tempo in silenzio, come hanno fatto tutti i giorni per l’ultimo mese, ogni tanto qualcuno dice una frase qualsiasi a mezza voce. Due uomini escono nel cortile. Restano in maglione, nonostante il freddo tremendo di una notte di un gennaio più rigido del solito, a guardare le luci notturne degli altri reparti. Quando rientrano uno dei due cerca nel taschino dei jeans qualche moneta e si avvicina alla macchina del caffè mentre in un angolo della sala un uomo che non si è mai alzato dalla panca metallica fissa la porta che conduce alle sale di rianimazione, abbassando poi gli occhi sul telefono che tiene in mano. Ai muri sono attaccati dei manifesti colorati. Una delle donne si liscia nervosamente una piega dei pantaloni di velluto. Poco prima dell’una di notte la porta si apre. Un’infermiera, con la mascherina abbassata sotto il mento, li guarda con la meccanica empatia di chi ogni giorno vede la gente morire. Chi vuole salutarlo può entrare, dice. Poi aggiunge, accorciando le parole, sarebbe meglio subito, questa volta non c’è più tempo. L’uomo che fissava la porta si passa una mano sugli occhi, riprende il telefono e scrive un messaggio.