Murder by Numbers
Non se lo ricordava come aveva iniziato, forse con la pistola di suo padre trovata in un cassetto. Una volta che spari a qualcuno, poi hai due sole strade, a meno che tu non sia un poliziotto: o non lo fai più perché il solo pensiero ti fa salire un’angoscia che non riesci nemmeno a descrivere, o ci prendi gusto, e spari ancora. A lui piaceva farlo così, a caso, mettersi quel piccolo pezzo di ferro nella tasca del giubbotto, salire in bicicletta, entrare nel parco e sparare a un impiegato che portava a passeggio il cane, senza un motivo, per il solo piacere di schiacciare il grilletto e sentire quel botto, senza nemmeno curarsi più di tanto di essere visto da qualcuno. Non ci pensava. Lo faceva e basta. Sulla faccia delle persone che ammazzava non si disegnava né l’orrore né l’incredulità: semplicemente non facevano in tempo, lui si avvicinava e in un secondo, quando era a un metro di distanza, tirava fuori la pistola e colpiva. Faceva sempre centro, era bravo. Teneva una specie di contabilità, ma lo faceva a mente, non prendeva appunti, non segnava tacche sul muro o sul calcio della pistola. Un giorno semplicemente si stufò, alle sette di un mattino nebbioso fece secco un quarantacinquenne che faceva jogging prima di andare in ufficio, poi si avvicinò al laghetto dove i bambini andavano a buttare le tartarughe che non potevano più tenere a casa, gettò la pistola nell’acqua limacciosa e andò a bersi un caffè.