|
|
17/10/2005
Al largo della Gulf Coast si sta preparando il ventunesimo uragano “named” della stagione 2005, eguagliando il record stabilito nel 1933. Wilma, si chiama. Da queste parti, essendo discretamente lontani dal mare, non ci si preoccupa più di tanto di questa simpatica amica il cui arrivo è previsto verso la fine della settimana, ma il nervosismo comincia a serpeggiare, stando ai canali all news.
I signori che organizzano la fiera alla quale partecipo, evidentemente stanchi di rischiare (gli ultimi due anni ci hanno visti prima a Orlando e poi a New Orleans*, per dire), hanno deciso che la prossima edizione si terrà a San Francisco. Niente uragani da quelle parti, al massimo il Big One.
* Ho incontrato diverse persone che si sono viste passare da un albergo ad un altro e poi ad un altro ancora, in punti della città sempre più scomodi e improbabili, perchè pare che Atlanta sia uno dei principali centri di alloggiamento degli sfollati di New Orleans. In giro non si vede nessuno identificabile a vista come tale, ma questa è la giustificazione addotta; sarà, ma trovo strano che vengano usati per questo scopo alberghi da duecento dollari a notte.
Più ci penso, più me la prendo con quei babbei dei Braves, che si sono fatti eliminare con le League Series a portata di mano – e allora una domenica o un lunedì sera al Turner Field non me lo toglieva nessuno. Perchè la passione americana per il baseball (soprattutto in questa stagione, finali di lega e World Series) è una cosa che bisogna toccare con mano (una, l’altra deve essere occupata con un hot dog). Ieri sera hanno espulso allenatore e battitore dei Cardinals alla fine dell’ottavo inning, su un two strikes – three balls*, roba che in Italia avrebbero dovuto chiamare l’esercito. Come se non fosse successo nulla, o quasi. Ha mille difetti, questo paese, visibili a occhio nudo e senza particolare sforzo. Ma il baseball, gente.
* Non fatemi entrare nei dettagli, dovrei spiegare il punteggio, cosa sono gli strikes e i balls, l’eccezionalità di una espulsione, roba così. Fidatevi, andiamo.
Nove anni fa era tempo di Olimpiadi. Si trovava un poliziotto ogni dieci metri, e Atlanta era la città più sicura degli Stati Uniti.
Oggi, il grado di sicurezza è molto diminuito, dicono. Se si vuole stare tranquilli, basta andare alla CNN, dove si è costantemente seguiti da uno o più uomini della security interna: forse la cosa ha il suo senso. O forse no, ed è una spiegazione buona anche quella.
Entri nella chiesa dove il piccolo Martin veniva da piccolo ad ascoltare le prediche di suo padre.
Ti siedi su una delle panche, guardi la chiesa, piccola, ne osservi le vetrate con i nomi delle persone che hanno versato i loro risparmi per comprarle, guardi le assi del parquet e ne puoi contare gli anni – più dei tuoi, certamente – ascolti il nastro che riempie l’aria con le parole di una predica di Martin diventato uomo (e la cosa più fantastica non sono le sue parole: sono gli oooh e gli yes e i oh Lord della gente che lo ascoltava), ti passano davanti agli occhi le immagini di cento film che hai visto e che hanno costruito la tua coscienza democratica. E ti commuovi.
Ci sono zone, nelle città, che sono una sorta di campo neutro: ci si ritrovano tutti, ricchi, poveri, giovani, vecchi, uomini, donne. A Milano, per dire, Piazza Cordusio o Corso Buenos Aires. Qui il campo neutro è downtown. Auburn Avenue, invece. Ho incontrato altri tre bianchi, in un’ora e spiccioli: una donna alcolizzata di età indefinibile, e due turisti al MLK Memorial Center. Un bianco, qui, non è e non può essere a casa sua: la signora appena uscita dalla chiesa, che mi ha salutato mentre mi incrociava insieme ai tre figli, lo ha fatto con un tono gentile ma esplicito: ad Auburn Avenue, a Edgewood, a Old Wheat Street la padrona di casa è lei (in compagnia di molte altre persone con le quali non ha molto da spartire, se non quel piccolo trascurabile particolare che è il colore della pelle). In fondo, credo che abbia ragione lei; e credo anche che sia giusto così.
Auburn Avenue, negli anni Cinquanta, era definita da Fortune – senza imbarazzo alcuno, il politically correct ai tempi non esisteva – the richest negro street in the world.
All’incrocio con Peachtree Street (quella vera, anche se ce ne sono almeno altre trenta che portano lo stesso nome), proprio dove parte Auburn, ci sono delle foto in bianco e nero a testimonianza di quell’epoca dell’oro: bei vestiti, bei negozi, una sensazione, appunto, di benessere se non di ricchezza vera e propria.
Oggi, Auburn ti porta fuori da downtown Atlanta in cinque minuti a piedi; e della ricchezza di cinquant’anni fa non vedi nulla. Il mondo cambia in modo rapidissimo: non credo che in questa città esista qualcosa di definibile con il termine “ghetto”, ma l’idea è quella. Vetri rotti, dropouts a fiumi, un senso di precario che ti mette in agitazione. Eppure, basta voltarsi per vedere i grattacieli del Westin Hotel, della AT&T, della Coca-Cola a portata di mano (ricordate Billy Joel? My other world is just half a mile away. Ecco). Pensi a quelle foto che hai visto solo pochi minuti fa, e ti chiedi se questa gente non stava meglio quando stava peggio. Probabilmente no, è chiaro. Ma sembra di vivere uno di quei reportage dalla nuova Russia, con la gente che rimpiange i tempi di Breznev anche se adesso ha la libertà. Libertà da cosa, poi, chissà.
In peggio, di solito. Adesso, le cameriere di Hooters non usano più la benedetta maglietta bianca annodata sotto il seno, ma una canottiera – aderente, certo, ma volete mettere l’effetto. E, se i ricordi non mi ingannano, la misura minima di reggiseno accettata è scesa a una terza, a volte anche scarsa. Il locale di Peachtree, comunque, alle cinque del pomeriggio era strapieno.
Nove anni fa, le bevande con le quali il pubblico si poteva titillare le papille al World of Coca Cola erano 56. Oggi sono 39. Crisi? Cost optimization? Non so. So che, naturalmente, le ho provate tutte – anche se in dosi più modiche, data la deformazione del mio fisico dal 1996 ad oggi. Ne sono uscito vivo, nonostante abbia ingerito (stando a chi ha compulsato il vocabolario inglese per mio conto) una Fanta alla betulla, tossica quanto le acque del Lambro. Le difficoltà temprano lo spirito, dicono.
D’accordo, crescendo si impara a contestualizzare le parole altrui. E si capisce il senso delle parole dello steward quando si scusa perchè non funziona la radio, così come la luce per poter leggere in santa pace (a dire il vero, questa si attiva: pigiando però sul tasto posizionato sul bracciolo della vicina, una libanese di nome Rania, che si è addormentata trenta secondi dopo il decollo). Ma anche tu, benedett’uomo, non puoi dire a un passeggero “Sa, questo aereo oggi ha un sacco di problemi“.
|
|
|