Noi
A differenza di Massimo, sono riuscito ad arrivare in fondo al reportage di Ezio Mauro sui morti di Torino, i sette operai della Thyssen. Un articolo bello quanto possono esserlo, a volte, le cose dolorose, le storie tragiche. Un articolo che doveva essere scritto, e doveva essere letto.
Ma converrà dire, a costo di essere sgradevoli, che il pezzo di Mauro alimenta un’idea di fondo sbagliata. A partire dal titolo (che non è suo, ma che è fedele – per una volta – al testo che segue), Mauro torna più volte sul concetto di invisibilità: l’operaio è invisibile, trasparente, non ha più uno status sociale. E’ questa l’idea sbagliata? No. Credo che sia vero. Ma è sbagliato pensare e far credere che questa sorte sia toccata solo agli operai. Fermatevi per un momento a pensare, fate mente locale, considerate il pezzo di mondo che conoscete: di quante persone, voi inclusi, potreste definire con una qualche precisione non dico il ruolo sociale, ma il lavoro? Quanti bambini oggi sono in grado di spiegare che cosa fanno i loro genitori per portare a casa lo stipendio? Non è solo questione di precariato, che oggi fai l’assistente di direzione e domani la commessa e dopodomani l’autista per UPS. Ieri provavo a fare sfoggio di autoironia snocciolando ad un’amica le tronfie cariche che riempiono il mio biglietto da visita (un modo per dire “beh, tu mi conosci, ti pare che io possa davvero essere questo?”), ma la realtà è che mi mancano proprio le parole per spiegare, a me stesso per primo, che cosa cazzo faccio nella vita lavorativa. E so benissimo di non essere solo, in questa condizione.
La realtà è che siamo cresciuti nutrendoci di questa immane puttanata del culto dell’individualità: io, io, io. Io sono questo, io faccio quell’altro. Io. E a forza di “io” ci siamo persi per strada il “noi”, abbiamo finito per credere che l’essere uguali agli altri sia una cosa brutta, della quale vergognarsi. Ma facendo evaporare il “noi”, ognuno è miseramente scomparso: salite su un vagone della metropolitana alle otto del mattino, e dite in tutta onestà quante persone potete riconoscere per quello che fanno – forse giusto quella guardia giurata appoggiata alla parete là in fondo, con il cappello storto, la pistola nella fondina e gli anfibi opachi. Non sono diventati invisibili solo gli operai: è successo lo stesso agli insegnanti, ai ferrovieri, agli impiegati di banca, a praticamente chiunque. Siamo tutti manager: marketing manager, key account manager, community manager. Ognuno convinto di essere qualcuno per il solo fatto di esistere, e gli altri affanculo.
Mantellini, Repubblica.it
January 12th, 2008 at 19:57
Pezzo superbo, Sir. Superbo.
January 12th, 2008 at 21:43
anche io sono arrivata in fondo all’articolo di ezio mauro. l’ho considerato un doloroso dovere, un dovere per non dimenticare.
riflettevo poi sull’affermazione “siamo tutti manager” e su quanto sia purtroppo vera.
nella piccola agenzia pubblicitaria per la quale ho lavorato per molti anni eravamo tutti responsabili di qualche cosa: responsabile clienti, responsabile di produzione, responsabile field; insomma una scala gerarchica orizzontale, senza alcuna possibilità di carriera e senza alcun superiore se non il “grande capo”.
quanto all’invisibilità che dire di un settore dove difficilmente si strappa un contratto, che manipola milioni di euro senza avere nemmeno un albo professionale o una categoria professionale nella quale riconoscersi all’apertura della propria partita iva?
ma, ritornando agli operai, la loro è un’invisibilità peggiore secondo me: è invisibile non solo il disagio sociale ma anche il loro sacrificio: sia da vivi che da morti.
January 12th, 2008 at 23:12
Superbo, sì. Superbo
January 13th, 2008 at 00:03
L’umiltà è una cosa che non esiste più da tempo…specie dal lunedì al venerdì, più o meno dalle 9,00 del mattino…
January 13th, 2008 at 11:25
Forse perchè in fondo non siamo soddisfatti di ciò che siamo, quindi ci mimetizziamo, siamo proiezioni di noi stessi, ma le proiezioni sono talmente instabili e lontane che spesso ci portano a rinchiudere tutto ciò che di caratteristico possediamo, ci portiamo alla società come un semplice frullato di giacca e cravatta o jeans e maglietta.
red
January 13th, 2008 at 12:01
Bravo, Sergio.
January 14th, 2008 at 09:48
se mio figlio volesse fare l’idraulico so che ne sarei contento. forse.
January 14th, 2008 at 10:20
Forse abbiamo bisogno di etichette. Dietro cui nasconderci, e non dire a tutti quello che siamo. Che son anni in cui s’ha da difendersi.
January 14th, 2008 at 15:01
lucido. come sempre.
in ogni caso è un culto dell’individualità che si è trasformato in una sostanziale irresponsabilità sociale: conta quello che faccio nei sei metri quadrati che mi girano intorno, al resto ci penserà un altro ufficio o un altro collega. si è un po’ perso il concetto di “società”, o meglio, è rimasto quello di esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili.