Ieri sera stavo lì, in Piazza Duomo. Non so quanti eravamo, non mi sono preoccupato di andare a controllare i numeri, eravamo tanti e questo basta. Non sto a dire che gente ci fosse, di foto in giro se ne trovano millemila e ognuno si può fare un’idea. Quello che posso dire è che a me pareva di stare bene, mi pareva che tutti stessero bene: e in modo tranquillo, allegro, quasi stupito, come succede quando passi dodici ore seduto alla scrivania dell’ufficio e poi esci con i colleghi e fuori c’è ancora tanta luce; non c’era aggressività, non c’era rivalsa, non c’era la frenesia rabbiosa da occhi sbarrati e iniettati di sangue che tante volte si vede in occasione di una delle molte celebrazioni che costellano il calendario sociale. C’era soltanto tanta gente che si godeva una vittoria faticata, meritata e inattesa, gente che per una sera non aveva voglia di fare le pulci a se stessa, passando sopra al trito parterre de roi dei Bisio-Costa-Finardi-Gianco-bellaciao, che non aveva bisogno di dire a quelli che “tanto sono tutti uguali” che allora prego, accomodatevi là, fuori, sappiamo benissimo chi ha vinto – noi – e chi non ha vinto – voi – perché era tutto evidente, netto, palese. Diceva bene, come sempre, lei: i sogni si infrangono all’alba – ma non prima – e per stasera la realtà vera non ci interessa. A quella ci pensiamo oggi: e pure oggi, nonostante lo specchio ci restituisca il nostro ritratto fatto di rughe e doppi menti e capelli da portare al parrucchiere, pure oggi siamo campioni del mondo.