Era la prima estate che passava a Milano. Era arrivato qualche mese prima, quando l’inverno che temeva si era ormai ammorbidito e la primavera gli aveva regalato l’impressione che quel posto non fosse la bruttura che gli avevano descritto e che si era convinto di trovare. Aveva in tasca un contratto, la famosa occasione alla quale non si può dire di no, ma che lui avrebbe rifiutato senza farsi troppi problemi se non si fosse accorto che i motivi che lo avrebbero tenuto nella città dove aveva trascorso gli ultimi undici anni valevano solo per lui: e questo non era abbastanza. Gli mancavano il caldo secco, il sole abbacinante che gli faceva chiudere gli occhi mentre risaliva i colli, il vento leggero e fresco del tardo pomeriggio, il fiume, l’azzurro inevitabile di certi giorni di gennaio. Ma si scoprì a gustare le imperfezioni del clima, in particolare quella invisibile coperta di umidità che lo faceva svegliare già sudato e lo accompagnava durante tutta la giornata, perché aveva la fortuna di fare un lavoro che raramente lo costringeva alla scrivania dell’ufficio: quel che gli piaceva era sentirsi sfinito e appiccicoso, spogliarsi, e sentire l’acqua della doccia cadergli addosso e pulirlo – era quel minuto, che si ripeteva magari due o tre volte durante il giorno, quel minuto valeva qualsiasi fatica, valeva la pena di stare in quella città non sua, che non gli dava un motivo per restare e nemmeno uno per andarsene. Ogni volta, alla fine di quella doccia che sognava e gustava come se fosse la cosa più preziosa del mondo, si trovava a pensare che in fondo, almeno per un po’, una ragione per vivere a Milano ce l’aveva: era fare il giro delle stagioni, vederle arrivare e passare e scoprirle. Quel giro lo aveva osservato per undici anni, là sui colli e in riva al fiume. Poi le cose, restando identiche, erano cambiate e ora lo affrontava da solo: chissà che colori avrebbe avuto il parco Sempione, a fine settembre.