Chissà quando è stato
Ho appena appoggiato le spalle allo schienale della poltrona quando sento la voce dietro di me. Non so accompagnarla ad una faccia, ma ad un tipo umano sì. Quel modo di parlare, il tono, il volume, l’apertura delle vocali: noi le riconosciamo al volo. Il figlio cresciuto di un immigrato meridionale nella periferia di Milano, uno che in quella periferia non solo ci è nato e cresciuto come tutti noialtri, ma ci è rimasto dentro per tutta la vita, cercando tanto tempo fa un modo per lasciarla – e magari poi tornarci come si torna a casa dopo un lungo viaggio – ma senza mai trovarlo, e simulando poi per il resto della vita un orgoglio mai provato per la diversità da guerrieri della notte. Alzo gli occhi, lo guardo nello specchio mentre il barbiere prepara i suoi attrezzi. Sapevo di non sbagliarmi: la corporatura, il taglio dei capelli, il giubbotto, le scarpe, tu metti insieme Lombroso e Anna Wintour e il tuo tipo umano è servito. Dopo qualche minuto lo chiamano per nome, anzi per cognome, ed ecco che ho quattordici anni. Ecco chi sei. Nemmeno io so il tuo nome, non so se l’ho mai saputo, andavi in giro con un altro tipo e in quartiere tutti vi chiamavamo per cognome, una coppia indissolubile, Simon e Garfunkel, Pulici e Graziani. Chissà quand’è stato che ti ho perso di vista, forse quando ho iniziato l’università, forse l’anno di naja. Chissà quand’è stato che io ho iniziato a diventare quello che sono, e quand’è stato che tu hai iniziato a diventare quello che sei, da quanto si dicono i due barbieri mentre esci dal negozio per fumarti una sigaretta uno che ha problemi di alcool, uno che un giorno di questi dobbiamo chiamare il 118 per farlo ricoverare, l’altra sera l’ho dovuto accompagnare in macchina e a momenti mi strappa il sedile con tutta la cintura di sicurezza. Quando rientri ti hanno nascosto il sacchetto di plastica giallo pieno di lattine di birra, tu racconti a un ragazzo che giocavi nella sua stessa società calcistica quando avevi la sua età, eri uno stopper forte, dici, un giorno hai marcato il figlio di una delle due glorie calcistiche di questa città e lo hai annullato davanti agli occhi del padre che parlò bene di te al tuo allenatore, dici che a quei tempi eri grande e grosso, il doppio di oggi ma io a questo punto mi ricordo, ho davanti agli occhi la fotografia dei tuoi sedici anni e dei miei diciassette, sei sempre stato così come sei oggi, un fascio compatto di nervi e muscoli alto uno e settanta in punta di piedi, un mucchio di capelli da spaventapasseri e un naso che arrivava il giorno prima di te. Quando vado a pagare mi cade dalla tasca un pacchetto di fazzoletti di carta e tu attraversi il locale per raccoglierlo e darmelo con una gentilezza che mi stranisce, e quando esco saluto tutti, dico ciao anche a lui che sta davanti alla porta, e risponde ciao buona serata come se ci dovessimo vedere domani, al bar qui all’angolo, offrendoci a vicenda quel bicchiere che non abbiamo mai bevuto insieme nel resto della vita.