Dando alle parole il peso che meritano, posso dire che Marco Travaglio mi suscita i famosi sentimenti di amore-e-odio. Non posso fare a meno di considerarlo come uno di quei mastini del giornalismo di cui si sente un bisogno reso ancora più forte e urgente dalla palese scarsità dell’articolo, ma non riesco a non inquietarmi quando lo sento parlare di valutazioni etiche e morali a prescindere dai risultati dei processi (un conto è la giustizia e un conto è la legge, il concetto è più o meno questo). Ieri sera Travaglio era ospite di “Che tempo che fa“, e mentre lo ascoltavo pensavo le cose che ho scritto qui sopra.
Pensavo anche che, nel famoso “Paese normale”, un paese capace di avere abbastanza dignità e rispetto di se stesso da pulirsi senza aspettare di essere pulito (dai magistrati e dai giudici), Travaglio sarebbe solo e semplicemente quello che dovrebbe essere (e che, onestamente, lui dice di essere): un cronista di giudiziaria. Invece, siccome viviamo nell’emergenza continua, e ci tocca assistere quotidianamente alla protervia del malaffare e al girotondo dell’indignazione, Travaglio assurge a simbolo, a paladino. Mala tempora currunt, e correranno ancora per un pezzo, credo.
Wittgenstein, Che tempo che fa