La sala giochi
I muri sono coperti di disegni che riproducono i grandi classici Disney. Il corridoio è immerso in un silenzio rotto ogni tanto da uno scoppio di pianto dirotto e disperato; dalle camere escono madri sicure con il volto indurito di chi sa di avere un lavoro da fare, qualunque esso sia e qualsiasi sia il prezzo da pagare per farlo. Ogni tanto si muove qualche uomo che va alla macchinetta del caffè, o all’edicola, o al supermercato dell’ospedale – i posti dove non si vedono siringhe e tubicini e provette e cartelle cliniche. Nella sala giochi una volontaria dai capelli bianchi e ordinati sorride alla bambina bionda, le chiede il nome, da dove viene e se vuole giocare con quella specie di pongo profumato: la donna è il ritratto della buona, vecchia, solida borghesia milanese, il dovere fatto col cuore, ha gli occhi azzurri e sereni, che contrastano con quelli scuri e spenti dell’uomo che le siede accanto, una copia di Repubblica appoggiata sulle ginocchia e la solida sensazione di essere la persona sbagliata nel posto giusto. L’uomo guarda la bambina, accenna un sorriso, allunga la mano per accarezzarle la testa; lei restituisce in fretta il sorriso e si mette a giocare con la signora dai capelli bianchi. Una dottoressa si ferma sulla soglia della sala giochi e chiama un nome.