Fermo la macchina in una via fatta di asfalto sbrecciato e pozzanghere. Ho ancora un’ora di tempo, il telefono non squillerà più per il resto della sera, e ho un po’ fame. Entro nel locale, una pretenziosa pizzeria in una zona sconosciuta di una città altrettanto ignota, e chiedo un posto. Mi accompagnano; appoggio il palmare sul tavolo, mi tolgo il giubbotto. Vorrei mandare un messaggio, poi mi dico che non è il caso: “Non troppo”, mi ripeto. Ordino. Mi guardo intorno. Cinque colleghi che concludono la settimana lavorativa con una pizza, discutendo di chissà cosa; me li immagino nel loro ufficio tecnico di un’azienda manifatturiera, dalle otto di mattina alle sette di sera e novanta minuti di pausa pranzo da prendere a turno, andando a mangiare a casa un piatto di pasta preparato dalla madre che alle quattro del pomeriggio andrà a prendere i bambini all’uscita della scuola. Quattro ragazzi male assortiti, uno che sembra un serial killer elegante e uno che pare il cantante di un gruppo emo, tre bottiglie di birra da sessantasei, dieci euro per passare un paio d’ore e una Punto parcheggiata con abbastanza benzina da raggiungere un autogrill all’una di notte. Una coppia che si tiene per mano, in silenzio, lui grossissimo e lei grossa, ogni tanto si guardano negli occhi e ogni tanto si guardano in giro, ognuno puntando verso un muro diverso. Una famiglia, lui che pare un biker in pensione, lei un’impiegata statale e il ragazzo – il ragazzo avrà vent’anni e non riesco a staccare gli occhi dalla sua giacca della tuta in acetato, nera e verde. Cerco di trovare un denominatore comune a queste persone e all’aria di trash minore che si respira, mischiata al profumo di spaghetti allo scoglio a dieci euro per un minimo di due persone. Non lo trovo. In fondo non ho nemmeno molta voglia di trovarlo. Finisco la pizza. “Non troppo”, mi ripeto ancora nei due minuti durante i quali stacco il cervello. Pago, esco.
[Dedicato ai casuali soci di una serata inattesa, Oriella e Stefano]