Aprire gli occhi quando il primo numero sulla sveglia è ancora un 4.
Alzarsi e muoversi nel buio, arrivare al divano, accendere la tv, portare il volume a zero, vedere che Philadelphia è 5-0 con Milwaukee.
Chiudere gli occhi. Riaprirli. Far passare un’ora.
Decidere che oggi si resta a casa un’ora in più.
Tornare a letto.
Sentire una stanchezza infinita.
Pensare ai bagagli da fare, all’offerta da mandare, ai piani della prossima settimana da stendere, all’amico da incontrare dall’altra parte del mondo.
Girarsi sull’altro fianco, pensare alla mail più difficile dell’anno, che adesso resta salvata nei Draft e aspetta solo di essere spedita. Decidere di attendere un giorno ancora, chiedersi che effetto sortirà, e imporsi di non pensarci, non per il prossimo quarto d’ora.
Sentire i rumori del palazzo che si sveglia, la corsa dell’ascensore, la porta dei vicini, il caffè che sale nella moka.
Stendersi sulla schiena, avvertire i muscoli rattrappiti, stirare le gambe, sentire chiaramente l’età del proprio corpo.
Sentire una stanchezza infinita.
Non riuscire ad aspettare un’ora.
Alzarsi, fare la doccia, farla un po’ più calda del solito.
Aprire la lavatrice, stendere il bucato, andare a svegliare la bambina, sentirsi chiedere “come mai sei qui”. Guardarla in faccia nella penombra e trovarla bella in modo doloroso. Chinarsi, baciarla sulla guancia, farsi baciare, sentire che non c’è nessuno al mondo che ti ama in quel modo, e provare ancora dolore.
Fare colazione, evitare le notizie in tv, cambiare idea sulle scarpe, controllare chiavi, soldi e telefono.
Salutare.
Avvicinarsi alla porta. Andare avanti: non a dispetto degli altri, ma di se stessi.