La leva calcistica
Alle quattro del pomeriggio si ritrovano, come richiamati da una inudibile campanella. Hanno finito i compiti, e ci sono ancora tre ore di luce e caldo da sfruttare, prima di dover rientrare a casa, e lavarsi, e prepararsi per la cena. Ci sono tutti. C’è quello piccolo, il più piccolo, di età e statura, ma che ha coraggio da vendere e si mette in porta e si tuffa e esce in scivolata in mezzo ai piedi di gente grossa il doppio di lui e quando una pallonata gli ha quasi spaccato il setto nasale ed era una maschera di sangue ha chiesto giusto cinque minuti di pausa, è tornato in casa, al sesto piano, si è lavato in fretta ed è tornato giù di corsa, ci sono, sono a posto. C’è quello indolente, che tocca bene il pallone ma non ha voglia di correre, è mancino e sta lì, sulla sinistra, a crossare che sembra Mario Corso. C’è quello bello come il sole, biondo, con gli occhi azzurri che le mamme quando lo vedono dicono tutte che sembra Paul Newman anche se lui non sa chi sia. C’è quello matto, che loro un po’ lo prendono un po’ in giro e un po’ ne hanno paura, che ci vuole niente che ti tiri un pugno da farti secco ma quando gli lanci il pallone là, lontano verso l’area avversaria non ti devi più preoccupare perché corre più veloce di Mennea, è un ghepardo dal naso di aquila, dai che sei solo. C’è quello alto e secco che la palla come la prende di testa lui non c’è nessun altro, la chiama alzando il braccio e quella arriva e lui salta e per un secondo tutti stanno fermi a guardarlo mentre sale in cielo e i capelli si muovono e gira il collo e la fronte colpisce in pieno quel pezzo di cuoio gonfio e graffiato. C’è quello che non gioca né meglio né peggio degli altri, è solo un onesto terzino destro, ma con le parole è il più bravo di tutti, e gli altri gli chiedono per piacere se va a mettersi in piedi là su quella panchina sotto gli alberi al bordo del campo pietroso, dai fai la radiocronaca, e glielo chiedono convinti, glielo chiedono anche se mandarlo su quella panchina significa essere dispari e giocare con uno di meno, non importa perché come le racconta lui le partite non le racconta nessuno, usa parole che loro non conoscono, che li fanno sentire grandi e importanti e allora non sembra di stare in un rettangolo di quaranta metri per venti chiuso tra i palazzi di nove piani, ma a San Siro, al Maracanà, all’Azteca, e lui vorrebbe giocare ma sa che i suoi compagni lo ammirano per quella capacità e allora sale sulla panchina e Ameri a te la linea. Ogni tanto passa una ragazzina, quella con i capelli lisci e lunghi della sezione D, la conoscono tutti perché disegna in un modo fantastico, ogni tanto nel cortile della scuola, durante la ricreazione si siede per terra nell’angolo vicino alle finestre della cucina, si appoggia sulle gambe incrociate un quaderno nero ad anelli con i fogli di carta spessa e porosa e inizia a disegnare, a volte ritratti, a volte il panorama dei grattacieli che dividono il quartiere dal parco, qualcuno passa e sbircia e la saluta e lei non risponde, ogni tanto passa vicino al campo dove loro giocano, fa un cenno con la testa e un sorriso timido e bello, parte un cross dalla sinistra, e i capelli mossi salgono verso il cielo, gol, scusa Ciotti mi inserisco dal Comunale di Torino.