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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    07/04/2020

    Il lockdown visto da Sarajevo

    Filed under: — JE6 @ 15:25

    (…) Il messaggio del mio amico mi ha portato a galla un terzo ricordo, quello di un uomo che mi ha raccontato di aver percorso quel tunnel tante volte da non ricordarsele nemmeno più, per ogni volta che usciva per andare al fronte del Monte Igman ce n’era una che lo faceva tornare a casa, dove la casa era un palazzo attaccato alla prima linea dei combattimenti cittadini. Lo faceva perché aveva un piano per il suo futuro, voleva fare il dentista, continuava a studiare per quello, con metodo e applicazione e tigna durante le sue licenze. Era il piano semplice di un uomo semplice: ma era un piano. Insomma, cara Left Wing, mi è sembrato di capire questo: che dalle difficoltà – come quelle che stiamo vivendo noi: le guerre sono un’altra cosa ma tocca sempre citare Moretti in queste occasioni – si esce un po’ per cieco ottimismo, quello dei meme, delle catene su Whatsapp, dei lenzuoli ai balconi, dei chitarristi su Piazza Navona, degli applausi a medici e infermieri, e molto mettendosi a tavolino con un’idea di futuro: in piccolo per i singoli individui, in grande per la collettività. (…)

    Il resto sta qui, su Left Wing.

    01/04/2020

    Dare i nomi alle cose

    Filed under: — JE6 @ 17:15

    L’anno scorso, approfittando per l’ennesima volta della pazienza e del buon cuore della mia famiglia, mi sono preso una settimana e sono andato a fare un viaggio per conto mio. In Bosnia, per la precisione. Uno dice perché proprio lì, e non credo di avere risposte molto convincenti. Da una parte credo che chiunque abbia i suoi luoghi mitici: io nella vita ho avuto la fortuna di vederne molti di quelli che componevano la lista mentale ma questo pezzo dei Balcani e soprattutto Sarajevo mi mancavano, e questo può essere considerato un buon motivo. Credo. Però c’era e c’è un altro motivo: che è un non-motivo, se vogliamo, e che ho impiegato anni per trovare qualcuno che sapesse esprimerlo nel modo giusto; lo ha fatto una scrittrice americana, si chiama Annie Dillard e in un libro che varrebbe la pena leggere solo per il titolo (“Teaching a stone to talk”: non è meravigliosa questa immagine di una donna che insegna a parlare a una pietra?) ha scritto questa frase perfetta: «Lo scopo di andare in un posto come il rio Napo in Ecuador non è vedere uno spettacolo straordinario. È semplicemente vedere che cosa c’è. Siamo su questo pianeta una volta sola, e tanto vale farsene un’idea». Perfetta. Per me, almeno.

    Comunque. Sono salito su un pullman a Milano, ho seguito il corso della Sava che una volta univa quattro delle sei repubbliche che componevano la Jugoslavia e ora fa loro da confine, per andare a Sarajevo e da lì a Srebrenica e Perucac dove gli anziani fotografano l’oggi con una frase semplice e secca: “Anche l’altra volta è iniziato così“. Ho girato Sarajevo insieme a Mustafa, che iniziò a combattere a diciassette anni e oggi si guadagna da vivere come guida turistica mostrando i luoghi dell’assedio, ho incontrato Jovan Divjak, eroe di guerra per i bosniaci e giuda per i serbi, ho guardato i graffiti lasciati a Potočari dai caschi blu del Dutchbat III insieme a un ufficiale della riserva olandese, mi sono trovato di fronte alla tomba di Alija Izetbegovic insieme a una classe di liceali portati a renderle omaggio e sono rientrato in Italia con il mal di Bosnia che ho provato a curare, senza riuscirci, scrivendo un libro.

    Scrivere un libro, quanto meno provarci, serve a diverse cose, l’ultima delle quali è diventare famoso facendo soldi a palate. Serve a capire che quelli bravi sanno fare una cosa precisa, ognuno a suo modo ma ognuno benissimo: danno i nomi alle cose. Sono capaci di dire quello che tu hai sulla punta della lingua ma non sai esprimere e lo sanno fare con una sorta di esattezza che a te sembra la cima del Cervino vista da tremila metri più in basso. Serve a pensare, e ripensare: a farsi domande, essenzialmente, cercando di rispondere onestamente. Serve a studiare: si dice che per scrivere bisogna leggere, ed è vero. Bisogna leggere tanto prima, bisogna leggere almeno altrettanto durante, ed è buona cosa leggere e rileggere molto dopo: quindi, anche quando si crede di scrivere per far sapere qualcosa agli altri – chiunque questi siano – in realtà si sta accumulando sapere per se stessi.

    Insomma, credo di aver imparato qualcosa nel farlo. Ma l’elenco è lungo, certamente più lungo di così, e magari lo riprenderò per non dimenticarmelo quando potremo tutti uscire di casa. Intanto, il libro è questo.