L’anno scorso, approfittando per l’ennesima volta della pazienza e del buon cuore della mia famiglia, mi sono preso una settimana e sono andato a fare un viaggio per conto mio. In Bosnia, per la precisione. Uno dice perché proprio lì, e non credo di avere risposte molto convincenti. Da una parte credo che chiunque abbia i suoi luoghi mitici: io nella vita ho avuto la fortuna di vederne molti di quelli che componevano la lista mentale ma questo pezzo dei Balcani e soprattutto Sarajevo mi mancavano, e questo può essere considerato un buon motivo. Credo. Però c’era e c’è un altro motivo: che è un non-motivo, se vogliamo, e che ho impiegato anni per trovare qualcuno che sapesse esprimerlo nel modo giusto; lo ha fatto una scrittrice americana, si chiama Annie Dillard e in un libro che varrebbe la pena leggere solo per il titolo (“Teaching a stone to talk”: non è meravigliosa questa immagine di una donna che insegna a parlare a una pietra?) ha scritto questa frase perfetta: «Lo scopo di andare in un posto come il rio Napo in Ecuador non è vedere uno spettacolo straordinario. È semplicemente vedere che cosa c’è. Siamo su questo pianeta una volta sola, e tanto vale farsene un’idea». Perfetta. Per me, almeno.
Comunque. Sono salito su un pullman a Milano, ho seguito il corso della Sava che una volta univa quattro delle sei repubbliche che componevano la Jugoslavia e ora fa loro da confine, per andare a Sarajevo e da lì a Srebrenica e Perucac dove gli anziani fotografano l’oggi con una frase semplice e secca: “Anche l’altra volta è iniziato così“. Ho girato Sarajevo insieme a Mustafa, che iniziò a combattere a diciassette anni e oggi si guadagna da vivere come guida turistica mostrando i luoghi dell’assedio, ho incontrato Jovan Divjak, eroe di guerra per i bosniaci e giuda per i serbi, ho guardato i graffiti lasciati a Potočari dai caschi blu del Dutchbat III insieme a un ufficiale della riserva olandese, mi sono trovato di fronte alla tomba di Alija Izetbegovic insieme a una classe di liceali portati a renderle omaggio e sono rientrato in Italia con il mal di Bosnia che ho provato a curare, senza riuscirci, scrivendo un libro.
Scrivere un libro, quanto meno provarci, serve a diverse cose, l’ultima delle quali è diventare famoso facendo soldi a palate. Serve a capire che quelli bravi sanno fare una cosa precisa, ognuno a suo modo ma ognuno benissimo: danno i nomi alle cose. Sono capaci di dire quello che tu hai sulla punta della lingua ma non sai esprimere e lo sanno fare con una sorta di esattezza che a te sembra la cima del Cervino vista da tremila metri più in basso. Serve a pensare, e ripensare: a farsi domande, essenzialmente, cercando di rispondere onestamente. Serve a studiare: si dice che per scrivere bisogna leggere, ed è vero. Bisogna leggere tanto prima, bisogna leggere almeno altrettanto durante, ed è buona cosa leggere e rileggere molto dopo: quindi, anche quando si crede di scrivere per far sapere qualcosa agli altri – chiunque questi siano – in realtà si sta accumulando sapere per se stessi.
Insomma, credo di aver imparato qualcosa nel farlo. Ma l’elenco è lungo, certamente più lungo di così, e magari lo riprenderò per non dimenticarmelo quando potremo tutti uscire di casa. Intanto, il libro è questo.