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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    23/04/2021

    Quello che te ne resta

    Filed under: — JE6 @ 17:47

    Oggi ho trovato una frase, scritta da Riccardo Staglianò nel suo contributo settimanale a una delle migliori newsletter fra quelle che riesco a leggere. Staglianò spiega perché da quasi dieci anni legge quasi unicamente su Kindle; dà una spiegazione che sembra tecnica (ha a che fare con il modo in cui riesce a evidenziare e archiviare tutte le sottolineature in un unico grande archivio che poi si spulcia a piacimento quando gli serve o quando, semplicemente, ha voglia) ma non lo è. Quelle parole che ha messo da parte sono il supremo estratto delle sue letture, sono le cose per lui veramente importanti e “alla fine i libri sono quello che te ne resta, o no?“.
    Questa piccolissima frase, queste dodici parole che per me sono verissime (sarà che leggendole insieme al resto dell’articolo mi pareva di stare di fronte allo specchio, in tutto e per tutto) mi hanno fatto venire in mente un’altra frase, quella che da diciotto anni accompagna questo blog, presa dall’autobiografia di Gabriel Garcia Marquez, uno di quei quattro, cinque scrittori che forse non mi hanno cambiato la vita ma l’hanno accompagnata per un tempo lunghissimo e non ancora finito: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla“. La scelsi perché mi sembrava perfetta: esatta e vera. Lo penso ancora, e più passa il tempo e invecchio e accumulo e più me ne convinco: persone, posti, azioni, cose successe, sensazioni provate, libri: alla fine c’è quello che ti è rimasto, quello che ti ricordi e ti si è stampato dentro in qualche punto che non sai nemmeno bene dov’è ma non importa perché la vita è quella; il resto c’è stato ed è stato importante, ma non così tanto, delle mille pagine attraverso le quali sei passato sono rimaste sette righe, quelle importanti per te, quelle che hai sottolineato e messo da parte, quelle che si sono evidenziate da sole e infilate in quell’angolo del portafogli dove tieni le cose dalle quali non ti vuoi dividere mai.

    22/04/2021

    Call the call a call

    Filed under: — JE6 @ 12:25

    [Cose scritte altrove]

    “Call”

    Sono in call. Fissiamo una call. Sentiamoci nel pomeriggio perché questa mattina ho due call di fila. Scusa, non posso, sono in call. Le call ci sono sempre state, si chiamavano telefonate; poi, un po’ per forza, un po’ per pigrizia, un po’ per tirarcela, abbiamo iniziato to call the call a call. Credo che il primo focolaio sia stato qui a Milano, e ci porteremo le stimmate vita natural durante perché un capro espiatorio ci vuole sempre; poi, come ogni buona infezione si è diffusa in fretta: epidemia e pandemia. Variante: conference call, spesso usata a sproposito – siamo io e te, che conference vuoi che sia. Comunque suona meglio, più seria: siamo in tanti, sarà una cosa importante. Poi arriva quello che la chiama conf call e crolla tutto. Call. Chiamare. E’ per quello che c’è tutto questo casino: tutti chiamano tutti, ce ne fosse uno che risponde.

    20/04/2021

    Dopo l’incidente

    Filed under: — JE6 @ 14:52

    Io ogni volta che sento parlare di normalità, di ritorno alla normalità – intesa come “la vita che facevo nel gennaio del 2020, tutta insieme” – non riesco a fare a meno di chiedermi se lo si vuole davvero quel ritorno, e quanta paura abbiamo e avremo nell’uscire dal tunnel, quando ne avremo davvero modo, e quanto quella paura ci frenerà, come succede a chi subisce un incidente brutto.

    10/04/2021

    Play around it

    Filed under: — JE6 @ 18:43

    In una intervista a Marc Maron, Paul Shaffer – che noi qui conosciamo come il leader della band che ogni sera accompagnava il Late Show di Dave Letterman e in realtà è un musicista straordinario che ha suonato con chiunque facendo anche la storia della televisione americana – racconta che un giorno Miles Davis gli disse una frase che lui ricorda come una delle grandi lezioni della sua carriera e della sua vita: “Start with the root, Paul, but then play around it. Don’t play the root, play around it“. Parti in do ma non fare il giro completo, non ritornare lì. Giraci attorno. E’ un po’ che ci penso, è bello anche e forse soprattutto che in inglese quel root ricordi la radice, ciò da dove partiamo e che ci tiene legati a un’origine senza legarci ad essa schiacciandoci al suolo. Play around it, senti come suona bene, che bella lezione.

    09/04/2021

    Generale la guerra è finita

    Filed under: — JE6 @ 11:51

    Generale, la guerra è finita
    il nemico è scappato, è vinto, battuto
    dietro la collina non c’è più nessuno
    dolo aghi di pino e silenzio e funghi
    buoni da mangiare, buoni da seccare
    da farci il sugo quando viene Natale
    quando i bambini piangono
    e a dormire non ci vogliono andare

    Ho una foto, salvata nel telefono. Ci sono io, stretto nella mia t-shirt dei Pink Floyd, a fianco di Jovan Divjak. Lui ha la stessa espressione vista migliaia di volte, un misto di serietà e tranquillità e fiducia che si riesce incredibilmente a ritrovare anche in tante immagini degli anni dell’assedio di Sarajevo, anche in quelle scattate nei momenti più difficili. Io: beh, io ho il sorriso vagamente incredulo di un ragazzino che si ritrova a dieci centimetri da una rockstar planetaria (e già il fatto che sorrido in una fotografia, sì, è abbastanza eccezionale). Mi aveva portato al suo cospetto Asim pochi minuti prima: “Generale, le presento un nostro amico italiano che vorrebbe tanto salutarla” e lui era stato cordiale, mi aveva stretto la mano con quella benna che aveva stretto mitra e accarezzato bambini, mi aveva parlato in italiano, mi aveva detto che sarebbe venuto a Milano qualche mese dopo.

    Di quei pochi minuti nel centro della Baščaršija di Sarajevo ricordo la sensazione di solidità della sua persona e soprattutto il fatto che i passanti si fermavano a decine a salutare, chi gli diceva grazie e chi lo toccava sulla spalla come se fosse una reliquia vivente e lui rispondeva a tutti, a tutti faceva un cenno o rivolgeva un saluto o un ringraziamento. Ancora oggi, dopo quasi due anni, mi capita di ripensare a quel momento realizzando che non sono mai stato così vicino a una manifestazione di affetto e riconoscenza come quella alla quale ho assistito in quel giorno di agosto in Bosnia. Un amico mi ha scritto poco fa: “Stavo leggendo un po’ di social e news sulla morte di Divjak. E’ impressionante. Non credo che esista un altro uomo, oggi, così universalmente amato e stimato dalla sua comunità“. Erano – sono – un amore e una stima meritati: perché per quella gente, tutta, senza distinzioni di sesso, nazionalità o religione, il generale Jovan Divjak aveva rischiato tutto quello che aveva, a partire dalla vita. Non era stata una storia d’amore tutta rose e fiori, quella del generale con Sarajevo: i suoi concittadini erano molto più disposti a porgergli oggi il tributo della loro gratitudine di quanto non lo fossero stati al termine della guerra, quando venne messo alla porta insieme al generale di origine croata Stjepan Šiber, entrambi prepensionati con la motivazione della scarsa fiducia che i soldati bosgnacchi nutrivano nei confronti di ufficiali non musulmani. Ma alla fine il tempo gli aveva reso giustizia; ho passato giorni a chiedermi se io, dall’alto della mia mezza età e della mia informazione e del mio spirito critico così ben addestrato dalla frequentazione con la politica del mio paese quel giorno nel centro di Sarajevo non mi sono lasciato affascinare e incantare dalla vicinanza a un mito costruito con perizia da una delle molte macchine di propaganda che si sono talvolta affrontate e talvolta spalleggiate in quel lunghissimo, estenuante e non ancora concluso conflitto, e oggi che Jovan Divjak non c’è più continuo a sentirmi dalla parte della ragione, continuo a pensare di aver incontrato e stretto la mano a un uomo che, al netto degli errori che chiunque commette e delle decisioni inevitabilmente sporche alle quali ti costringe la guerra, ha scelto la parte giusta: o meglio, la parte della giustizia, che non è la stessa cosa anche se non ho abbastanza parole valide per spiegare la differenza: e sono contento di averlo fatto.