Il muro, lo zoo, e il resto
Questa sera, un po’ dopo (ma non tanto) le 21.30, va in onda su La7 la seconda puntata di Passato Prossimo, la trasmissione che Luca ha girato a e su Berlino.
La si cita, qui, sia perchè il programma vale la pena di esser visto (e lo si scrive a ragion veduta, essendo stati spettatori della prima puntata), sia perchè la sua visione ha fatto riaffiorare i ricordi di Berlino 2004, che riporto brevemente qui sotto.
Falce e martello
Delle molte cose viste in queste poche ore, quella che più mi ha colpito è il sacrario dove sono sepolti 2500 soldati sovietici, sulla Strasse des 17 Juni. Le scritte in cirillico, il grande simbolo di falce e martello, il prato curato, le mura pulite, due turisti americani che guardano, guardano ancora e scattano un paio di foto: il comunismo sarà anche stato sconfitto dalla storia, ma qui sembra che, per lo meno, gli portino rispetto.
Freiheit, Freiheit, Freiheit
Ci sono luoghi, città dove le parole sembrano mostrare il loro vero significato.
Al centro della Strasse des 17 Juni, quella enorme, lunghissima via alberata che parte dalla Porta di Brandeburgo, costeggia il Tiergarten e arriva alla Statua della Vittoria, si trova la statua di un uomo che grida al cielo. E sotto, incise nella pietra della stele, si leggono le parole del Petrarca: “Io vado per il mondo, e grido: libertà, libertà, libertà”
I conti con il passato
Una cosa che mi pare straordinaria di questa città è il modo in cui fa i conti con il suo passato. Con i suoi passati, ad essere precisi.
Va orgogliosa degli imperatori, della Prussia, del tempo in cui Berlino e Germania (o come si chiamava, ma poco importa) erano realmente la stessa cosa. Ma non lo ostenta, lo fa con sobrietà, con una sorta di understatement che fa il paio con i suoni attutiti di molte sue strade. Perchè chi è forte “dentro” non ha bisogno di mostrare i muscoli, di gridare.
Al tempo stesso, Berlino non nasconde i suoi tempi cupi. Non nasconde le ferite, il Muro, le persecuzioni, il Fuhrer, le divisioni. Sono tutte lì, per chi le ha viste e per chi non c’era: i carri armati sovietici, la spoglia sala della Neue Wache a memoria delle vittime di tutti i totalitarismi, i nomi dei cittadini di Weimar uccisi dai nazisti impressi proprio di fronte al Reichstag. E’ un posto, Berlino, dove “memoria” è una parola che non ha perso senso; un’altra, come “libertà”. E’ un buon motivo per girarla, a piedi, da soli, e in silenzio.
On sale
La vera sconfitta del comunismo la si vede a cento metri dal Checkpoint Charlie, dove una decina di banchetti tenuti da immigrati prevalentemente turchi mettono in vendita i ricordi – alcuni veri, altri falsi, ma non fa differenza – di un mondo che non c’è più: elmetti dei Vopos, mostrine dell’esercito russo, maschere antigas, bandiere della DDR.
Passi da un banchetto all’altro, contratti, reciti, alla fine torni a casa con un orologio che ha sul quadrante falce e martello e che ti farà fare un figurone con gli amici. L’immigrato ha venti euro in più in tasca, ed un altro pezzetto di storia viene mandato in vacca. A pensarci, stupisce che gli anticomunisti viscerali continuino ad incaponirsi contro questo nemico ormai immaginario: bastano quattro soldi, per riporlo nel cassetto del comodino.
Il Muro e Roger Waters
Al Muro ci si arriva quasi per caso, percorrendo il mezzo chilometro che separa la sede del Ministero delle Finanze dal Checkpoint Charlie. Era lungo più di centocinquanta chilometri, oggi a Berlino ne rimangono duecento metri, conservati come un monumento.
Senza i graffiti di Keith Haring e delle altre migliaia di artisti veri o presunti che ci si sono allenati sopra, si mostra per quello che era veramente: un pezzo di cemento armato, squallidamente grigio, alto meno di tre metri, al di sopra del quale si vedono i palazzi che stanno sul lato opposto della via.
Guardi le foto che ricordano le centinaia di persone uccise dai Vopos mentre cercavano di scavalcare Die Mauer, cerchi di immaginare cosa voleva dire passare di fianco a quel pezzo di cemento buttando fugacemente l’occhio dall’altra parte.
A me viene in mente che se avessero preso un berlinese dell’est dei primi anni Ottanta, e gli avessero messo in mano i testi di The Wall, quest’uomo avrebbe scosso la testa, ed avrebbe mormorato “Roger Waters, stupido coglione, cosa ne sai tu di cos’è un muro?”. Non avrebbe avuto torto.
[Roger Waters non mi è mai stato simpatico; oggi ancora meno]
PS – Grazie a Luca, che mi ha ricordato questo suo articolo di qualche anno fa: a quanto pare le cose, da queste parti, non sono cambiate molto.