Un microscopico cambiamento dietro l’altro
Avrà una quarantina d’anni, bionda, vestita bene, ha in mano una cosa che assomiglia a un quaderno Moleskine e faccio in tempo a vederlo aperto su una scrittura grossa e ordinata, si direbbe pennarello nero punta medio-fine. Avete preso la metropolitana normalmente stamattina, chiede a me e alla ragazza che mi sta uno scalino avanti, sulle scale che quando sei a metà vedi il Duomo di fronte e ogni volta pensi guarda che roba. Noi (non ci conosciamo, siamo due passeggeri qualunque, scesi alla stessa fermata) non rallentiamo nemmeno per risponderle, sì assolutamente, lei, dirigendosi verso via Torino, aggiunge anche un siamo fatalisti che allora sì mi verrebbe da fermarmi e dire ma fatalisti de che, parla per te.
Comunque.
Comunque io mi ricordo che quando avevo undici e quattordici e diciotto anni succedeva qualcosa di brutto ogni giorno. Una bomba, un omicidio, un rapimento, una gambizzazione. Passai la seconda superiore con sei celerini armati che ogni giorno presidiavano la scuola dove andavo, perché ogni mattina che Dio mandava in terra c’erano decine di ragazzi che si sprangavano a sangue e chi passava nei dintorni ci finiva dentro, volente o nolente. Una sera stavo seduto sul divano con mia madre a fianco, e senza guardarla in faccia avvertii che le si era fermato il respiro, e quando alzai gli occhi vidi sullo schermo la fototessera di un uomo che poco prima era saltato (per fortuna senza morire) su una bomba a Brescia, e poi mi spiegarono che era un parente, un cugino carabiniere che io non avevo mai conosciuto. Per dire le piccole cose che erano realmente divenute quotidiane. E perciò ci avevamo fatto l’abitudine. Ci si abitua a tutto, è questo il fatto. E se ci pensi, l’abitudine non è esattamente fare sempre la stessa cosa: è piuttosto mettere un microscopico cambiamento dietro l’altro, a volte anticipando a volte seguendo il grande flusso nel quale ti sei trovato dentro, che tu l’avessi deciso o meno. Così siamo tutti passati dallo studiare per l’interrogazione di geografia al posto più o meno incerto nel terzario avanzato senza quasi rendercene conto, e a un certo punto ci siamo guardati intorno e le bombe nelle stazioni non scoppiavano più; in mezzo c’erano state alcune persone che avevano fatto una vita d’inferno, lasciandoci a volte la pelle, perché questo accadesse (o, appunto, non accadesse più), e moltissime altre che, semplicemente, si erano adattate per vivere, giraffe che un giorno dopo l’altro avevano allungato il collo per raggiungere la fogliolina verde messa là in cima all’albero – ed erano queste le persone che un giorno, molti anni dopo, avrebbero guardato quasi con stupore un grafico che metteva in fila le morti causate da attentati terroristici degli ultimi quarantacinque anni rendendosi conto che forse avevano vissuto un passato peggiore di quanto volevano o riuscivano a ricordare, un passato peggiore del presente, dal quale erano venute fuori per un misto di impegno, bravura, fortuna, fiducia e poi cos’era quell’altra cosa, ah sì, ecco, fatalismo.