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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    29/12/2021

    Per saperne di più

    Filed under: — JE6 @ 17:00

    Non so dire se me l’ero dimenticata oppure, cosa ben più probabile, colpevolmente persa nei giorni della sua uscita (ma era l’inizio di agosto, quando devi chiudere tutto prima delle veloci ferie e hai la testa un po’ qui e un po’ là; e poi le cavallette, ovviamente), sta di fatto che mi sono ritrovato solo un paio di giorni fa a leggere una bella intervista di Eleonora Marangoni a Emmanuel Carrère. Metto le mani avanti: credo di aver letto tutto di EC a parte la biografia di Philip Dick; poi ho riletto quel quasi tutto e ne sono stato persino più soddisfatto e insomma direi che ho nei suoi confronti quel che si dice un bias positivo. Può essere quindi che la sua frase che mi sono segnato nella mia virtuale Smemoranda non sia niente di che, e però mi ha colpito – più per l’esattezza che per l’onestà, dote che quando si parla di scrittori è comunque ampiamente sopravvalutata – e allora la metto qui, nel posto che tutto sommato mi sembra più adatto:

    A un certo punto nel libro (“Yoga”, NdR), parlando del mio editore, che era Paul Otchakovsky, lo scrivo: lui faceva parte di quelle persone che pensano siamo al mondo per migliorarci. Può sembrare una cosa scontata, ma non lo è affatto: ci sono persone per le quali diventare migliori non è uno degli obiettivi per cui si alzano al mattino. Hanno altre priorità, altre visioni. Quando dico “migliore” non intendo più gentile, più buono con gli altri, o almeno non soltanto: intendo piuttosto essere capaci di uno sguardo più aperto, più ampio sulle cose. Ecco io non penso di essere venuto al mondo per essere felice, quanto per saperne di più. Se uno vive con questa idea in testa, il tempo che passa è soltanto utile.

    I corsivi sono miei. Li ho messi perché in quelle parole trovo una verità: non assoluta, ma relativa. Se non temessi molto il ridicolo insito nel paragonarsi a uno dei più grandi scrittori viventi direi che mi sento proprio come lui. Non lo dico, quindi: ma penso che “saperne di più” e vivere anche per quello – trovando così che anche il più apparentemente irrilevante minuto dedicato a questo sforzo sia intrinsecamente utile – sia un modo per essere migliori. In realtà penso che si diventi migliori condividendo quel “di più” e mi illudo che EC la pensi allo stesso modo, almeno un po’ visto il mestiere che fa. Non lo dice e Eleonora Marangoni non glielo chiede: è la fine dell’anno, e una piccola illusione non fa male a nessuno.

    23/12/2021

    All’inizio del mondo

    Filed under: — JE6 @ 15:04

    La frase più bella che ho letto in questi ultimi tempi l’ho trovata nel pezzo che Adriano Sofri scrive quasi ogni giorno: “Vengo dalla Patagonia australe, dove comincia il mondo, dove si fondono tutti i racconti e l’immaginazione, in quello Stretto di Magellano che ha ispirato tanti bei romanzi”. L’ha detta Gabriel Boric, il nuovo presidente del Cile, un trentacinquenne figlio di una famiglia dalmata arrivata a Punta Arenas, nella Terra del Fuoco, in quel posto dove per noi finisce il mondo e per loro, giustamente, inizia.

    02/12/2021

    “What’s up, fellas”

    Filed under: — JE6 @ 13:48

    Succede che in una città del Michigan il coach dei freshmen (ragazzi di quattordici e quindici anni) dice alla squadra di mettere su una chat per condividere le informazioni tecniche e logistiche – orari degli allenamenti, trasporti, cose così. I ragazzi obbediscono, ma senza rendersene conto sbagliano l’ultimo dei quattordici numeri da agganciare al gruppo. Al primo messaggio arriva la risposta da un apparente sconosciuto: “volete veramente aggiungermi?”. Certo, rispondono loro, pensando che è il compagno che sta scherzando, ma quello continua: siete sicuri? Sì dai, smettila. Ma sapete chi sono? E lì me li vedo che iniziano a sbuffare, e falla finita su, ma insomma per farla breve quello gli dice “sono Sean Murphy-Bunting, il cornerback dei Tampa Bay Buccaneers, i campioni NFL”: uno dei più forti difensori della lega, e già che ci siamo pure uno che ha giocato nella Central Michigan University, a due passi dalla città dei ragazzi.

    Quelli continuano a essere scettici, non vogliono fare la figura dei creduloni, così Sean taglia la testa al toro e fa una videochiamata su FaceTime durante la quale fa fare ai ragazzi il giro virtuale dello spogliatoio dei Bucs e inizia a presentare i compagni che trova in giro, questo è Gronk (Rob Gronkovski, il più forte tight end di tutti i tempi), questo è Mike Evans, questo è Richard Sherman, questo è Leonard Fournette (magari non vi dicono nulla, ma fidatevi: è come leggere la formazione del Real di Di Stefano o quella dell’Italia del 1982). I giocatori si fermano a parlare con i ragazzi, uno dice a Fournette “Leo, guarda che sei nella mia squadra di fantasy football, mi raccomando la prossima partita” e lui risponde “stai tranquillo ragazzo” – e infatti un paio di giorni dopo giocherà contro Indianapolis e metterà giù 100 yard e 4 touchdown che è una cosa difficile da spiegare ma insomma fidatevi ancora, ha praticamente vinto la partita da solo con una meta a ventisei secondi dalla fine.

    Comunque. Succede che nei Buccaneers gioca Tom Brady, considerato da molti il più forte giocatore della storia, uno che da solo ha vinto più SuperBowl di circa venticinque squadre avversarie messe insieme, uno che sta un gradino sopra o sotto Dio a seconda di quanto siete credenti. I ragazzi chiedono di poter parlare anche con lui, che però è impegnato in una riunione; allora Fournette li tiene lì, sta un altro quarto d’ora al telefono a parlare, a raccontare, a rispondere a domande, probabilmente sperando di riuscire a fare il regalo ai ragazzi, dai Tom non farla lunga. E la riunione finisce, e Tom Brady vede il suo compagno (che non è l’ultimo arrivato: è una superstar pure lui; per capirci, se Brady è Maradona – o Pelè, fate voi e non incistiamoci – Fournette è almeno Tardelli) che chatta al telefono ma non capisce con chi, si avvicina, Fournette gli passa il telefono e allora lui può vedere sullo schermo i quadratini delle facce di una dozzina di adolescenti, sorride e gli dice “Ehi, what’s up fellas” e quelli prima svengono e poi oh my god non ci posso credere e poi lo tengono lì e lui ci sta, risponde, parla, scherza. Ah, siccome lo sceneggiatore ha fatto le cose per bene, Brady ha giocato nei Michigan Wolverines, ad Ann Arbor che sta a quarantacinque miglia da dove stanno seduti i ragazzi, insomma anche se è californiano è anche un po’ uno di loro e infatti uno dei ragazzi scappa per trenta secondi, apre l’armadietto e torna mostrando la maglia gialla e blu dei Wolverines con il nome di Brady sulle spalle – che è un po’ come se un quindicenne di Gratosoglio tirasse fuori la maglietta di Franco Baresi, per dire come i miti e gli amori non muoiono mai. “E’ stato bello”, ha detto Brady. “Sarebbe stato bello anche per me se mi fosse successo quando ero all’high school. E il fatto che fossero ragazzi del Michigan lo ha reso ancora più bello”.

    E’ una storia che ho trovato sul Washington Post, questa mattina. E’ una storiella piccola, di nessun conto. Però, non so. Sei campioni, multimilionari, gente che volente o nolente vive letteralmente in un altro mondo rispetto ai comuni mortali, prendono un’ora del loro tempo (quella di Brady vale 2876 dollari, se vi interessa: i Bucs gli passano venticinque milioni di dollari all’anno, e non consideriamo tutto il resto) e la passano a fare quattro chiacchiere – e il regalo di una vita o quasi – a una dozzina di ragazzini che come loro stanno in uno spogliatoio, a qualche migliaio di chilometri di distanza. Magari si sono rivisti in loro, magari hanno pensato a guadagnarsi senza fatica altri quattordici tifosi, vai a sapere: è che forse aveva ragione Foster Wallace, quando scriveva che “esiste una cosa come la cruda, incontaminata, immotivata gentilezza”.