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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    28/12/2020

    Di foreste e città

    Filed under: — JE6 @ 14:27

    Maximiliano Bianchi, in arte Strelnik, è un amico da tanto tempo e quindi probabilmente un po’ di parte nel giudicare i contenuti di queste pagine che fra qualche mese arriveranno a compiere la maggiore età.

    Strel’ si è messo in testa di ri-raccontare la blogosfera, quella che era e quella che è oggi (quando, va detto grazie a Dio, il termine è diventato spettacolarmente desueto e quindi evitato nella sua infinita bruttezza). Uno dei pezzi del racconto riguarda il sottoscritto e lo trovate qui, dove sentite un pisano e un milanese discutere di scrittura, città fantasma, viaggi e rate di affitto. Come dicono da altre parti, ascoltate responsabilmente (sì, è un podcast: ci piace stare al passo con i tempi, e subito dopo perderlo).

    27/12/2020

    Sotto la radio

    Filed under: — JE6 @ 16:25

    Quella che trovate qui a sinistra è la colonna dei ricordi. Ci trovate il blogroll – se siete abbastanza anziani non avete bisogno di spiegazioni; se non lo siete, fate conto che era il listone dei vostri preferiti, quelli ai quali volevate far sapere che li seguivate (e con questo che, sì, in effetti sarebbe stato bello se quell’interesse si fosse rivelato reciproco) – e la lista di un po’ di cose scritte negli anni, in quegli anni lì, quei sette-otto anni della blogosfera vera. Alcune le ho scritte da solo, la maggior parte sono raccolte. Fatte quasi tutte senza una logica vera e propria che non fosse quella del “dai, facciamo qualcosa insieme”. Il Post sotto l’Albero, per gli amici PslA, era esattamente questo, nato per scherzo nell’inverno del 2003 e finito nel 2010 nella gloria di un’orgia di quasi duecento pagine messe insieme in sei o sette settimane dementi, divertentissime e gratuite. Finì come devono finire le cose belle, prima di marcire: e forse è quello il motivo per cui tanti ne conservano un bel ricordo. Se volete capire di cosa parlo, basta cliccare uno dei link che vi manderanno a dei pdf principiati da un’icona di WordArt, divenuta simbolo cialtrone e pertanto nobile della scalcagnata iniziativa.

    Quest’anno cadeva il decennale di quell’ultima raccolta da campioni e a qualcuno è venuta l’idea di festeggiarlo mettendo in piedi una cosa divertente che non faremo più: qui, a casa del Many, trovate la storia e qui, su Radio Sverso, trovate il podcast del Post sotto la Radio, per gli amici PslR, una raccolta di pensieri e racconti presi dai PslA del passato e letti dagli stessi autori, intervallati da del gran bel rock’n’roll natalizio (più, se arrivate in fondo, il teaser di qualcosa di meno nostalgico che andrà in onda, speriamo, fra un mesetto o poco più. Stay tuned, dicono quelli del mestiere).

    22/12/2020

    Parlare da soli

    Filed under: — JE6 @ 12:45

    Questa mattina ho fatto quattro chiacchiere con un vecchio amico, uno di quelli che ho conosciuto nei lontani tempi in cui aveva senso definire qualcuno blogger (nonché impiegato alle poste o imprenditore o pensionato o filosofo prestato al terziario avanzato). Abbiamo parlato, vedi la sorpresa, di blog. Ma anche di libri, di scrittura e lettura. Di cose che abbiamo in comune, insomma. E quando abbiamo finito mi è rimasta addosso la curiosa sensazione che avremmo potuto continuare a lungo: un po’ perché siamo ormai due anziani (io più di lui, va detto) e quindi coltiviamo quel gusto del rimestare nei bei tempi che furono tipico dell’età avanzata, un po’ perché la realtà è che quegli anni lì, i primi anni Duemila, ci hanno lasciato addosso un’impronta sulla quale abbiamo poi lavorato negli anni a venire, a volte anche nelle forme opposte del rifiuto o della dimenticanza. Quando fai chiacchiere così è inevitabile fermarsi a fare il confronto tra oggi e ieri, e non c’è nulla di male fino a quando non diventa un crogiolarsi patologico. Serve a notare differenze e pensarci sopra, che non è mai una cosa cattiva. E quel che ho pensato è che poco meno di vent’anni fa in tanti (tanti si fa per dire: eravamo quattro gatti, ma pure i Police erano in tre eppure riempivano come la Filarmonica di Berlino) abbiamo pensato di usare uno strumento per esprimere noi stessi ma soprattutto per conoscere e confrontarci con altri. Erano i tempi dei manifesti che dicevano che persino i mercati erano delle conversazioni e noi in qualche modo, nel nostro piccolo sentivamo di farne parte: magari non ci fregava nulla di dialogare con Nike, ma ci tenevamo moltissimo a parlare con uno di Pisa o una di Teramo. I blog e le loro propaggini per tanti di noi sono stati quello, in sostanza: uno spazio e una palestra di conversazione; una palestra, sì, perché a parlare con gli altri, anche nella maniera sbilenca e asincrona di un post con i suoi commenti, ci si allena. O si dovrebbe farlo, almeno. E quel che ho pensato dopo è che le cose cambiano: che oggi gli spazi di conversazione sono infiniti, siamo immersi in un’unica infinita chiacchiera fatta di mille chat su Telegram e duemila su Whatsapp e tutti i social possibili e immaginabili, ma quel che spesso ci manca è lo spazio dove parlare con noi stessi. Proprio parlare da soli, che è una cosa che fanno i matti ma anche quelli che invece a una certa salute mentale ci tengono; e forse il blog oggi può tornare a essere utile per questo: a mettere giù un pensiero, articolarlo, e poi discuterlo. Una volta avremmo parlato di lana nell’ombelico e chissà, forse avremmo avuto ragione di farlo; oggi no, credo che sbaglieremmo, così come credo che abbiamo uno strumento bello e potente non per cambiare il mondo come qualcuno si illuse di poter fare, ma per migliorare un po’ noi stessi. Che, tutto sommato, può suonare come un obiettivo modesto, ma anche come un vaste programme che vale la pena affrontare.

    14/12/2020

    Ciò che non è vietato

    Filed under: — JE6 @ 08:40

    I cittadini fanno quello che non è vietato. La gran parte di loro lavora o studia dal lunedì al venerdì. E nel fine settimana, da che esiste la civiltà dei consumi, si riversa nelle strade dei centri cittadini. Quando le norme anti-virus lo hanno imposto, tutti sono rimasti a casa disciplinatamente. Sabato e ieri non c’era alcuna misura restrittiva, e a meno di due settimane da Natale le persone hanno fatto quel che si fa da sempre nel penultimo week end prima delle feste. Era la cosa meno imprevedibile del mondo, e non è stata proibita o disincentivata in alcun modo. E allora chi parla – tra i decisori politici – di insopportabili assembramenti, può individuarne agevolmente i responsabili, guardando lo specchio.

    Lo scrive Enrico Mentana, oggi. E a prima vista sembra un’argomentazione difficile da confutare. Eppure c’è qualcosa che non mi torna, e che cerco di razionalizzare.
    Vedo estremamente diffuso il desiderio che qualcuno ci autorizzi, su pergamena e con timbro a ceralacca, a uscire e muoverci nel modo più libero possibile; e dall’altra parte vedo il desiderio di dire “ah noi da lunedì area gialla cascasse il mondo, vedete che siamo bravi e tenerci in arancione (o rossa) è una discriminazione inaccettabile” in un processo di autoalimentazione micidiale. Ne sono stupito? No. Da che ho memoria sento una frase ripetuta in ogni ambito e situazione sociale: “ci vorrebbe una legge”. Noi, il noi generico che si usa in queste condizioni, il noi dell’escluso i presenti, siamo fatti così: vogliamo le leggi, vogliamo che qualcuno decida per noi sempre e comunque (lo ritengo il motivo principale della fantasmagorica produzione legislativa del nostro paese) non per far funzionare meglio le cose, ma per avere la coscienza a posto e dire che la legge è sbagliata o insufficiente. Ed è qui dove entriamo in gioco “noi”: continuano a morire 6-7-800 persone al giorno ma la temperatura emotiva è infinitamente più bassa rispetto ad aprile: con numeri ben inferiori tre quarti d’Italia usciva sui balconi a gridare “ce la faremo”, stringendosi a coorte dietro i vessilli dei medici in prima linea. Vedete oggi panico e disperazione, se non in chi viene colpito in prima persona? Io no. Che questo atteggiamento, che può avere ed ha mille spiegazioni, non giustifichi di per sé le decisioni prese da chi ha le responsabilità politiche ed esecutive mi pare evidente, ma lo trovo un aspetto cruciale dei tempi che viviamo. Ho la sensazione, guardandomi intorno, che raramente come durante questa cosiddetta seconda ondata del virus la grande maggioranza della popolazione (come vogliamo chiamarla? gente? quella) si sia trovata in sintonia con governo centrale e soprattutto regionale e viceversa, al netto delle incazzature di questa o quella singola categoria merceologica che si sente più o meno vessata. Questi governi, uno più venti, sono molto ben rappresentativi dei cittadini. Non so cosa sia più sconsolante, se la nostra o la loro pochezza, ma sul perfetto allineamento tra rappresentanti e rappresentati ho pochi dubbi (e no, la nostra bolla, posto che ne abbiamo una, non conta).
    Ecco cosa non mi torna dell’argomento apparentemente inscalfibile di Mentana: la deresponsabilizzazione dell’individuo, l’accettazione della sua regressione a infante che non solo approfitta dell’adulto imbelle ma quando vede qualche segno di resistenza batte i piedi e si strappa i capelli in un capriccio che ha come unico scopo la soddisfazione del proprio desiderio immediato. Io di natura non ho una grande fiducia nelle collettività, sono tendenzialmente un leninista temperato e quindi a guardare quello che succede quelle rare volte che siamo chiamati a dimostrare la nostra collettiva capacità di autoregolamentazione (e mai come in questi tempi di zone nell’area calda dello spettro ne abbiamo avuto la possibilità) i risultati mi sembrano così sconfortanti da giustificare qualunque autoritarismo. Peccato che quello di cui potremmo eventualmente disporre sia fatto a nostra immagine e somiglianza.