Voci
Non so se siete mai stati in un carcere. Io sì, due o tre volte (tre, per la precisione): non da recluso, ma sì, ci sono stato. E’ una cosa che mi è rimasta dentro. Sarà per quello che da quando me l’hanno consigliato sono andato in fissa con un podcast che viene prodotto nel carcere di San Quentin in California. Si chiama Ear Hustle, che nello slang delle prigioni americane significa qualcosa come origliare, ascoltare di nascosto. Le storie sono incredibilmente semplici, perché la vita dentro il carcere è (o sembra) una specie di versione base, senza optional, di quella che si fa fuori: dove vai a sederti la prima volta che entri nel refettorio, cosa significa sentire il trillo di un uccello, l’attesa della prossima visita di tua moglie o tuo fratello e il senso di vuoto al suo termine, cose così. Sono semplici: e potentissime, un po’ per questo andare al nocciolo di qualcosa che è comune a chiunque stia al mondo, un po’ per le voci.
Perché un podcast è fatto di quello: suoni, e soprattutto voci. Niente immagini, pochissime musiche. Voci, persone che parlano. Una, soprattutto: quella di Earlonne Woods, che è il co-autore e co-host del podcast. Earlonne è* un inmate, un carcerato, condannato a un minimo di 31 anni di carcere che possono tranquillamente trasformarsi in ergastolo (come se non fossero più o meno la stessa cosa). All’inizio di ogni puntata si presenta, dice mi chiamo così, questa è la mia pena, mi è stata data perché ho fatto questo e quest’altro, e adesso iniziamo. Non c’è una voce di Ear Hustle che non valga la pena ascoltare: quelle limpide, quelle roche, quelle strascicate, quelle che hanno eliminato le consonanti, e per ognuna ti puoi immaginare l’uomo che gli dà corpo – il nero, il latino, il giovane, il marito, il bianco, il calvo, il magro, quello che è entrato così tanto tempo fa da poter dire di aver passato la vita intera in prigione senza mentire. Ma la voce di Earlonne è un’altra cosa. E’ piena, calda, ironica e autoironica, piena di compassione e senza un briciolo di autocompatimento, e quando ride – e lo fa spesso, molto più spesso di quanto uno si potrebbe aspettare da un recluso a (quasi) vita – ti sembra di averlo lì seduto sul sedile a fianco che guarda fuori dal finestrino: vivo, e pieno, e consapevole. Dopo qualche giorno e qualche puntata mi sono fatto forza e sono andato a cercare le sue foto, volevo vedere che faccia aveva quest’uomo che mi stava facendo compagnia dall’altra parte del mondo. E niente, come dire: ho visto la sua voce.
*Era: ma questa è un’altra storia.