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31/12/2013
In bianco e nero è meglio, forse. O forse no, perché quel giorno c’era il sole, e chissà di che colore erano le strisce di quella maglietta, non riesco a ricordarlo.
da quando Senna non corre più
C’è una cosa che non hai mai smesso di mangiare, la marmellata. Nemmeno quelle guance ricordavo più. Marmellata di mirtilli, vero?
da quando Baggio non gioca più
Avresti dovuto esserci a vedere il Boss, davvero. Oddio, ma sai che sono venuti pure gli America? Sono vivi.
Cristo, scusa.
da quando mi hai lasciato pure tu
Quest’anno ho segnato anch’io, sai. Proprio uno di quelli.
non è più domenica
27/12/2013
Credo che fosse Mick Taylor a parlare, mentre passavano le immagini degli Stones dei primi anni Settanta – diceva “le band di solito vanno dietro al batterista, da noi invece Charlie segue Keith, è una cosa della quale quasi non ti accorgi, una frazione di secondo di ritardo, e poi ci sono io che tendo a suonare in anticipo, e insomma è un equilibrio fragilissimo, ci vuole niente a far crollare tutto”, e il non detto era che ci vuole una quantità spaventosa di impegno, cura, dedizione e attenzione per non mandare tutto in vacca; e non solo in una rock ‘n roll band, è così, sempre, con quella manciata di persone che contano, devi sentire il tempo, il tempo interno, e devi riconoscerne il cambiamento se e quando arriva, magari per una vita tu sei stato Keith e poi un giorno, senza nessun preavviso, ti ritrovi Charlie, e devi capire e decidere che va bene anche così, che vale la pena di fare lo sforzo e aspettare quell’infinitesimo di tempo per continuare a suonare.
23/12/2013
Il puzzle viene dispiegato sul tavolo di legno di un pub. Nella sala a fianco due ragazzi uccidono una canzone con la serena incoscienza dei brufoli. Viene fatto spazio, si spostano i bicchieri di birra e i cestini dei toast caldi, stai attenta a quel sedile ché è rotto. Sembra tutto perfetto, gli incastri precisi, la figura nitida – è un mosaico fatto da pochi pezzi, semplice. Eppure, senza una ragione precisa né una valida spiegazione, c’è posto anche per un’altra tessera, un po’ diversa dalle altre, come se fosse stata fabbricata da qualche altra parte, in un altro luogo, da qualcuno che parla un’altra lingua. Non c’è nemmeno bisogno di spingere, di forzare – come in una buona famiglia, di quelle che si ritrovano con le proprie consuetudini, i propri tic, le proprie battute che nessun altro capirebbe tutto è al suo posto, e senza fatica. Passa la cameriera, prende l’ordinazione del secondo giro, se ne va, ritorna perché sono due rosse e una chiara o due chiare e una rossa, butta un’occhiata al puzzle, pare che sorrida.
(C’è ancora adesso in via Spadari – cit.)
Leggevo oggi che l’Expo di Milano sarà molto più grande e bello di quello di Shanghai, che ci sono 141 nazioni che fanno a botte per avere un padiglione, e che insomma tutto va per il meglio. O andrà, ma ci siamo capiti.
Che dire. Lo spero. Spero che la città dove vivo faccia bella figura. Spero che la faccia senza esserne strangolata e messa ulteriormente sul lastrico. Spero un sacco di cose, e le spero accompagnato da un misto di ansia, disincanto e sostanziale terrore aumentato dal fatto che tutte le strutture principali dell’Expo sta(ra)nno a due passi da casa mia. Due passi in senso praticamente letterale. Il fatto è che noi italiani quando si parla di grandi opere pubbliche abbiamo già una mezza idea di come andrà a finire (e non starò a dire, dopo aver passato quasi tre mesi a Shanghai durante l’ultimo anno e aver visto l’area di Pudong dove sorgevano i padiglioni nazionali e le mille opere costruite in città in vista dell’esposizione del 2010 – musei, sopraelevate, tunnel – che il solo proposito di fare concorrenza ai cinesi ha un che di tragicomico alla Don Chisciotte). Andrà a finire, ad esempio, che se non ci sarà una mezza sollevazione popolare – e probabilmente pure in quel caso – verranno spesi, stando al budget dichiarato a oggi, una novantina di milioni di Euro per creare una “via d’acqua” che collega il sito dell’Expo all’area agricola di Milano Sud. Un progetto partito con uno stanziamento ben più alto, che aveva l’ambizione di ridare a Milano l’equivalente di quei navigli che grazie a svariati colpi di genio sono stati interrati e asfaltati nel secolo scorso. Canali navigabili, esatto. Fa ridere? Non so, forse: forse fa ridere l’ingenuità dell’aver pensato che la cosa fosse possibile in quanto potenzialmente utile, oltre che bella. Poi i soldi sono venuti meno, ma non abbastanza da portare alla cancellazione del progetto: e così da corsi d’acqua artificiali navigabili utilizzabili per turismo e commercio, come avviene in cento altri posti d’Europa, siamo passati a canali larghi otto metri e profondi uno e mezzo che partono da laghi artificiali di incerto futuro, passano dentro terreni ferocemente inquinati e da decenni in attesa di bonifica, tagliano due dei grandi parchi della città eliminando centinaia di alberi diosolosa quanti ettari di verde e arrivano a portare acqua inutile in luoghi che a quel punto non sanno più cosa farsene. Il quartiere è in fermento, ci sono le manifestazioni, le assemblee pubbliche, il Consiglio di Zona non è mai stato tanto seguito e frequentato e interpellato ma si sa, not in my back yard – se andate a chiedere a qualcuno che vive, chessò, in zona Ripamonti se ha mai sentito parlare delle vie d’acqua dell’Expo ricevete in risposta un’espressione bovina accompagnata da un “Uh?”, quindi potete evitare di raccontargli che in una delle cento varianti d’opera discusse in questi mesi c’era pure un errore di calcolo della pendenza dei terreni grazie al quale avremmo assistito al miracolo dell’acqua che risale senza bisogno di pompe e turbine e compressori, hai visto mai che i salmoni arrivino a Milano stanchi e non ce la facciano a raggiungere la meta.
Ieri sera ascoltavo il segretario del PD celebrare la decisione che ha cancellato gli organi elettivi delle province, centosessanta milioni risparmiati diceva, centosessanta milioni che serviranno a ridare credibilità alla politica, a convincere i cittadini che sì, possiamo tornare a fidarci. Poi ho guardato fuori dalla finestra, e ho disegnato con gli occhi il tracciato del canale dei puffi.
17/12/2013
Arrivano insieme, uno a fianco dell’altra. Alti, magri, distinti, hanno più di ottant’anni, spesso ne mostrano dieci di meno, a volte venti di più. Quando li vedi il primo pensiero che ti viene è che vorresti davvero invecchiare così, in buona salute, in compagnia, con lucidità, con una specie di eleganza. Poi rallenti il passo per salutare, guardi le due mani che escono dai cappotti e si stringono e ti pare di sentire il profumo sottile dell’acqua di colonia e di una paura piena di dignità, che è forse quel che ci aspetta a tutti, che è forse quel che ci auguriamo di avere.
14/12/2013
Una settimana fa ero a Lucca, a guardare le mostre del Photo Lux Festival. Era tanto, ma veramente tanto tempo che non vedevo un tale ammasso di bellezza, la street photography di Meyerowitz, le Meadowlands di Gergely Szatmary, il Corviale di Andrea Boccalini e la spettacolosa Reconstruction di Boris Mikhailov, e tutto il resto, tutto di una tale bellezza, appunto, da dispiacersi di essere solo, da volerla regalare a qualcuno – vieni a vedere che roba. Ma forse la cosa più fantastica era vedere queste fotografie di visioni urbane appoggiate a muri affrescati nel Cinquecento, guardare i volti di Tokio e gli slums di Mumbai affiancati ai santi e ai principi del Rinascimento, trovarsi davanti agli occhi le favelas di Caracas e Ground Zero dentro il palazzo dei duchi della Lucchesia, era tutto questo e non saper scegliere cosa guardare, e provare a guardare tutto, a tenerselo dentro, a riportarselo a casa intatto.
12/12/2013
E’ mezzogiorno. Sto seduto in una poltrona della grande hall dello Slovenijales, dopo quarantacinque minuti secchi di riunione per i quali ho viaggiato sei ore e lavorato undici mesi. E’ in quel momento che mi passa davanti agli occhi l’immagine del venditore di succo di bamboo che ogni giorno si ferma davanti al 400 di Zhejiang Middle Road da mezzogiorno alle sette di sera. Vai a sapere perché mi viene in mente questa cosa, ma lo so che nulla è per caso, e che se non sei tu ad andare dai simboli sono loro a venire da te, basta saperli vedere, basta avere voglia di aspettarli. Il bamboo. Quante impalcature fatte di quel fusto sghembo e nodoso ho visto nei mesi passati a Shanghai. Ci fanno pure le fondamenta dei palazzi, e dei grattacieli, lo usano come noi facciamo con il metallo che innerva il cemento armato. E’ forte, resistente, ed elastico. Si piega ma non si spezza. Si aggiusta, si adegua, e poi si raddrizza. E’ paziente il bamboo, viene sommerso dalle acque, portato verso il fondo dalle onde, e poi riemerge – le gocce scivolano verso il basso, e quando torna il sole la sua superficie liscia splende di un colore bruno e caldo. Mi rendo conto di aver conosciuto il bamboo in un anno nel quale mi sono servite e ho coltivato le sue doti, anche quando non me ne rendevo conto, anche quando mi pareva che non ne valesse la pena, anche quando la fatica era solo e semplicemente troppa. E adesso, mentre guardo il cielo grigio di Ljubljana e i muri tinti di fresco di questo enorme salone e l’incongruo toro di metallo che scimmiotta Wall Street non so dire se, appunto, ne sia valsa la pena. So che I got a job to do, e non era, non è solo lavoro, è qualcosa di più, di più grande e vasto, è stare in piedi, o provarci quantomeno per tigna, in modo anche insensato perché il senso alla fine sta in quella piccola, fugace vittoria che ogni tanto capita di conquistare, quella vittoria che come in questo istante meriterebbe di essere festeggiata con un brindisi, un bicchiere di qualcosa di buono – di succo di bamboo.
09/12/2013
C’è una cosa che noi “de sinistra” – quella della nomenklatura, quella dell’apparato – sappiamo fare benissimo, proprio meglio di tutti gli altri messi insieme. Sappiamo mettere, e tenere, il broncio. E Dio solo sa se ogni giorno non c’è almeno una ragione buona per farlo. Ma alla fine, qualunque significato si voglia dare a quella sua frase che sta nell’header di Babele come un consiglio o un cartello di pericolo, credo che avesse ragione Robert Musil: “Non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno“.
08/12/2013
Piazza del Popolo è piena di gente, alle sette di sera. I capannelli al piede dei portici, i clienti che scelgono tra miele di castagno e di acacia, lo struscio davanti ai negozi di scarpe. Un formicolio non frenetico, senza l’allegria minacciosa della Romagna che sta a due passi, come se attraverso il mare e le colline ci fosse davvero un confine che nessuno vede, nessuno sente e tutti percepiscono. Non so cosa succede in quelle due ore durante le quali mi siedo sotto una volta di legno a mangiare, so che quando ripasso sotto l’arco che mi riporta nel grande rettangolo della piazza tutto ciò che è rimasto è la fontana. Non c’è più nessuno, non una sola persona da lì, lungo via Rossini e fino al mare, ci sono solo le luci, identiche a quelle di prima, luci non ricche ma benestanti: ma non un’anima viva, una mano di Photoshop e via, sono rimasti solo i palazzi, e le ville, e gli alberghi squadrati. A gelare guardando il nero del mare siamo rimasti io, una ragazza con un cappello di lana calcato sulla fronte e un signore che porta in giro il cane. Pesaro alle nove di sera di un venerdì di dicembre è gente che non senti più, telefonami tra vent’anni, è negozi che aspettano il giorno dopo, è un caffè con i tavoli rossi, e un ragazzo indiano con un mazzo di rose, che fermo davanti all’ingresso dei Bagni Tina guarda dentro, al di là delle vetrate di un ristorante, senza dire una parola, lontano mille miglia.
05/12/2013
Siccome sto prendendo queste primarie del PD come una gara a chi mi imbarazza di meno, per me il terzo posto (e quindi la medaglia d’oro della fremdschämen politica) è già da tempo assegnato a Pippo Civati e ai suoi sostenitori, che cercano di far passare il Calimero piccolo e biondo per il Mike Tyson di Monza e Brianza, tutto muscoli e ribellione – cosa vuoi, dicono che siamo nella società dell’immagine, c’è quella cosa del physique du role.
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