Non riesco nemmeno a ricordare da quanto lavoriamo insieme, noi quattro. Saranno dieci anni, ormai. Quante bare abbiamo portato in chiesa, quante ne abbiamo fatte uscire. All’inizio non è stato facile abituarsi, i funerali non piacciono a nessuno. Poi è diventato un lavoro, una cosa da fare bene quel tanto che basta per continuare a tenere il posto, portare a casa uno stipendio alla fine del mese e tirare su qualche mancia, un quarto a me, un quarto a Paolo, uno a Franco e uno a Roberto. Non ci hanno più divisi, il caso ha voluto che fossimo alti uguale, robusti uguale, due biondicci e due mori, sembriamo fatti apposta per stare insieme, per fare gruppo. A volte, una volta iniziata la funzione, se conosciamo la zona o se arrivando con il carro funebre abbiamo visto un bar che ci sembra decente usciamo dalla chiesa e andiamo a berci un caffè e mentre camminiamo sul marciapiede c’è sempre una macchina che rallenta e una ragazza che ci guarda perché fino a quando non ci arrivi proprio vicino vicino non capisci che le nostre sono divise di un’agenzia di pompe funebri, non di qualche corpo militare o di una compagnia aerea, e sembra che ci siano poche cose capaci di colpire una donna come una camicia bianca e un nodo della cravatta stretto al punto giusto. A volte però portiamo la bara in chiesa, percorriamo la navata centrale, ci fermiamo davanti all’altare, sbrighiamo le cose che dobbiamo fare con la sincronia di un corpo di ballo e poi invece di andarcene per mezz’ora ci fermiamo e aspettiamo. C’è qualcosa che ce lo fa capire e non abbiamo mai bisogno di consultarci, sarà che in tutto questo tempo passato insieme siamo diventati amici e ci conosciamo e capiamo senza bisogno di parole. A volte la chiesa è così piena che si capisce che il morto era uno che contava: non perché fosse uno importante, uno che finiva sui giornali, ma perché contava per quella gente lì, per quel quartiere, quel gruppo di case, e allora ci piace provare a capire chi era, cosa faceva, perché la gente gli voleva bene o perché lo temeva o perché lo rispettava. A volte invece la chiesa è così vuota che restare, anche se in ultima fila, sembra proprio quella che mia nonna chiamava un’opera buona che non si nega a nessuno. Io non sono molto credente, così quando sto lì in quell’ultima fila la testa mi va un po’ di qua e un po’ di là, spesso penso a Giovanna, a dov’è, a cosa fa, a come sta, a quando otto anni fa ci siamo lasciati senza mai essere stati insieme e da quel momento non c’è stato un solo giorno che non l’abbia pensata, altre volte mi vengono delle immagini di posti dove sono stato in vacanza, arrivano così, di sorpresa, che è come se fossi lì su quella spiaggia o in quella piazza e potessi sentire i rumori e i profumi e ogni volta mi pare uno scherzo cattivo, una trappola un po’ crudele. Poi la messa finisce, noi ci alziamo, ci prepariamo, io e Franco davanti, Paolo e Roberto dietro, attraversiamo la navata fino all’altare e tutti ci guardano per un secondo, rifacciamo i nostri movimenti da ballerini, ci mettiamo la bara in spalla e ci dirigiamo verso l’uscita e a volte capita che dalle porte aperte della chiesa arrivi una luce bella, che si veda il sole e il cielo azzurro e in quel momento lì vorremmo tutti essere da un’altra parte e al tempo stesso vorremmo tutti che esistesse un qualcosa che non conosciamo e ci aspetta, un posto bello dove andare a passare tutto il tempo che ci resta, come se quel grosso barcone Mercedes che ci aspetta sul sagrato fosse la macchina col serbatoio pieno che ci porta in vacanza, destinazione paradiso.