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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    25/06/2015

    Prova a spiegarmelo

    Filed under: — JE6 @ 13:55

    Ora prova a spiegarmelo come se fossi un bambino di sei anni, con calma e parole semplici così che io ti possa seguire. Spiegami perché quando hai letto quel nome, Sofri Adriano (si fa così con i galeotti, no? Cognome-nome così l’ordine alfabetico funziona bene) ti sei riempito di bolle e la pressione ti è schizzata a trecento. Spiegamelo bene, lentamente: perché vedi, io credo che ci siano solo due possibilità. La prima è che tu pensi che uno che è stato condannato non possa più esprimere un’opinione: nemmeno su qualcosa che conosce meglio di chiunque altro, come la prigione, e a proposito di quella storia che la pena non serve solo a punire ma a rieducare le persone e rimetterle nelle condizioni di partenza, uguali a noi che al gabbio non ci siamo mai andati, non ci avrete davvero creduto. La seconda è che tu pensi che il signor Sofri Adriano non possa e non debba esprimere un’opinione, nemmeno su una cosa che conosce molto bene come la prigione, perché è lui, perché si chiama Sofri Adriano ed è stato per decenni uno che ti ha fatto uscire di matto, anche quando diceva e scriveva cose che tu sapevi benissimo essere vere e giuste. Ma questa seconda cosa non potevi farla, i bravi democratici non fanno ostracismo ad personam. E allora ti sei fregato con le tue stesse mani, senza accorgertene hai fatto l’equazione Sofri=condannato; cioè, anche Dell’Utri che pure è una testa fina non potrebbe e non dovrebbe dare un’opinione sulle carceri italiane, no? Non è così, dici? E allora dai, prova a spiegarmelo come se fossi un bambino di sei anni, io sono qui, mi metto comodo.

    14/06/2015

    Destinazione paradiso

    Filed under: — JE6 @ 20:37

    Non riesco nemmeno a ricordare da quanto lavoriamo insieme, noi quattro. Saranno dieci anni, ormai. Quante bare abbiamo portato in chiesa, quante ne abbiamo fatte uscire. All’inizio non è stato facile abituarsi, i funerali non piacciono a nessuno. Poi è diventato un lavoro, una cosa da fare bene quel tanto che basta per continuare a tenere il posto, portare a casa uno stipendio alla fine del mese e tirare su qualche mancia, un quarto a me, un quarto a Paolo, uno a Franco e uno a Roberto. Non ci hanno più divisi, il caso ha voluto che fossimo alti uguale, robusti uguale, due biondicci e due mori, sembriamo fatti apposta per stare insieme, per fare gruppo. A volte, una volta iniziata la funzione, se conosciamo la zona o se arrivando con il carro funebre abbiamo visto un bar che ci sembra decente usciamo dalla chiesa e andiamo a berci un caffè e mentre camminiamo sul marciapiede c’è sempre una macchina che rallenta e una ragazza che ci guarda perché fino a quando non ci arrivi proprio vicino vicino non capisci che le nostre sono divise di un’agenzia di pompe funebri, non di qualche corpo militare o di una compagnia aerea, e sembra che ci siano poche cose capaci di colpire una donna come una camicia bianca e un nodo della cravatta stretto al punto giusto. A volte però portiamo la bara in chiesa, percorriamo la navata centrale, ci fermiamo davanti all’altare, sbrighiamo le cose che dobbiamo fare con la sincronia di un corpo di ballo e poi invece di andarcene per mezz’ora ci fermiamo e aspettiamo. C’è qualcosa che ce lo fa capire e non abbiamo mai bisogno di consultarci, sarà che in tutto questo tempo passato insieme siamo diventati amici e ci conosciamo e capiamo senza bisogno di parole. A volte la chiesa è così piena che si capisce che il morto era uno che contava: non perché fosse uno importante, uno che finiva sui giornali, ma perché contava per quella gente lì, per quel quartiere, quel gruppo di case, e allora ci piace provare a capire chi era, cosa faceva, perché la gente gli voleva bene o perché lo temeva o perché lo rispettava. A volte invece la chiesa è così vuota che restare, anche se in ultima fila, sembra proprio quella che mia nonna chiamava un’opera buona che non si nega a nessuno. Io non sono molto credente, così quando sto lì in quell’ultima fila la testa mi va un po’ di qua e un po’ di là, spesso penso a Giovanna, a dov’è, a cosa fa, a come sta, a quando otto anni fa ci siamo lasciati senza mai essere stati insieme e da quel momento non c’è stato un solo giorno che non l’abbia pensata, altre volte mi vengono delle immagini di posti dove sono stato in vacanza, arrivano così, di sorpresa, che è come se fossi lì su quella spiaggia o in quella piazza e potessi sentire i rumori e i profumi e ogni volta mi pare uno scherzo cattivo, una trappola un po’ crudele. Poi la messa finisce, noi ci alziamo, ci prepariamo, io e Franco davanti, Paolo e Roberto dietro, attraversiamo la navata fino all’altare e tutti ci guardano per un secondo, rifacciamo i nostri movimenti da ballerini, ci mettiamo la bara in spalla e ci dirigiamo verso l’uscita e a volte capita che dalle porte aperte della chiesa arrivi una luce bella, che si veda il sole e il cielo azzurro e in quel momento lì vorremmo tutti essere da un’altra parte e al tempo stesso vorremmo tutti che esistesse un qualcosa che non conosciamo e ci aspetta, un posto bello dove andare a passare tutto il tempo che ci resta, come se quel grosso barcone Mercedes che ci aspetta sul sagrato fosse la macchina col serbatoio pieno che ci porta in vacanza, destinazione paradiso.

    10/06/2015

    Cos’abbiamo da guardare

    Filed under: — JE6 @ 12:55

    C’è questa grande vetrata, a Roma Tiburtina. Sta al secondo piano (o è il primo? mai che riesca a ricordarlo), vicino a un bar che vende i panini da stazione. Ci arrivi passando in mezzo a una specie di area di sosta con i tavolini e le sedie abbastanza larghi da non sentirsi in imbarazzo. C’è sempre qualcuno a quella vetrata, qualcuno che gira la sedia e passa dei quarti d’ora a guardare fuori. Cosa, non lo so: se lo chiedessero a me, che lo faccio ogni volta che posso se non arrivo trafelato, non saprei cosa rispondere. Perché il panorama è quello che è: brutto, fatto di palazzi che erano brutti anche da nuovi e figuriamoci oggi dopo decenni di gas di scarico e manutenzioni approssimative, di un cavalcavia grigio anche quando il cielo ha il colore dell’ottobrata romana, e là sotto i binari con i treni dell’alta velocità. Potrebbe essere uno scorcio di Bucarest o di una qualsiasi delle città che usiamo come paradigma della bruttezza (a mostrare la nostra ignoranza: Bucarest è tutto tranne che brutta, per dire), una cartolina di certa periferia milanese o della banlieue parigina (perché la città-più-bella-del-mondo è fatta di tante enormi isole di puro squallore), eppure a quella vetrata, davvero: c’è sempre qualcuno. Che sta lì, e guarda, una mano appoggiata sul trolley e le gambe stese, e quando deve alzarsi per cercare il suo binario pare che gli dispiaccia.

    04/06/2015

    Fonzie reloaded

    Filed under: — JE6 @ 14:57

    A volte – raramente, ormai: a invecchiare ci si irrita e ci si imbarazza più facilmente – guardo qualche decina di minuti di una qualche trasmissione nella quale c’è un qualche politico che risponde alle domande di un qualche giornalista. E se questo fa il minimo sindacale del suo lavoro, c’è quasi sempre un momento nel quale il politico di turno ha una manciata di secondi di debolezza: glielo leggi negli occhi, mentre sta recitando il suo copione fatto di sicurezza, assertività, indignazione, compostezza, empatia, affidabilità, è come se sopra la testa gli si disegnasse un fumetto in corsivo e a linea tratteggiata che dice “non farmi questo, non chiedermi queste cose, lo so che hai ragione, lo so che abbiamo fatto una cazzata, lo so che mi sto arrampicando sui vetri ma non lo posso dire, le regole sono queste, non lo posso dire e non lo dirò anche se ne avrei tanta voglia, anche se penso che ci guadagneremmo tutti, se non in voti in buona coscienza”. In quei momenti sembra di vedere Fonzie che prova a dire “ho sbagliato” e non ci riesce: però quelli erano degli happy days e noi ridevamo felici; e questi, invece, no.

    [Poi ci sono quelli che quella manciata di secondi di debolezza non ce l’hanno proprio: e sono quelli che non fanno né pena né rabbia, ma solo paura. Di solito sono quelli che fanno la carriera vera]