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31/05/2010
Una volta, quando qui era tutta campagna, eravamo in pochi. Quattro gatti, forse otto. Camminavi tranquillo per strada, incontravi quella manciata di amici e conoscenti sulla strada per andare in ufficio o su quella per tornare a casa, o durante la pausa pranzo. Per organizzare una bevuta al venerdì sera ci impiegavi dieci minuti.
Poi hanno costruito le case, i grandi palazzi, quelli da otto piani e cinque scale, uno via l’altro. Quartieri interi, e poi città. E’ arrivata la metropolitana, hanno tirato su il centro commerciale – un ipermercato e sessanta negozi. Tanta gente. E’ bella la gente, la gente è colorata, allegra, ride e scherza e fa le foto, e se oggi i tuoi tre amici sono occupati per i fatti loro – uno che parte per andare al mare con la fidanzata, uno al corso di free climbing, uno semplicemente stanco che ha voglia di mettersi davanti alla televisione per guardare un film – qualcuno per la birretta o il concertino lo trovi sempre. E’ bella la gente, ma devi stare attento, perché ma come non ti sei accorto che quello ci sta provando e guarda che quei due stanno insieme e quegli altri hanno litigato e quello se l’è presa che hai invitato tizio e caio e non sempronio, è bella la gente ma ognuno è il centro di una stella e alla fine con i sei gradi di separazione tu vorresti stare con un amico e finisci ogni volta per essere con trenta persone – quindici lì e quindici che chattano con i quindici al tavolo e ognuno di questi che sbircia nello schermo altrui per sapere chi e cosa e come e quando.
E’ bella, la gente.
29/05/2010
Quel giorno l’uomo stette a letto più a lungo del solito. Si sentiva molto stanco, e provó a riposarsi. Quando fu stanco anche del restare sdraiato in mezzo ai pensieri, si alzó; si fece una doccia, si guardó allo specchio, si vestí. Poi prese una piccola spugna, di quelle con un lato verde ruvido, e inizió a sfregarla. La sfregó sui muri, sulle tende, sul computer portatile che rimaneva sempre acceso, sulla giacca blu che aveva indossato il giorno prima, sulla sveglia a led rossi che stava sul comodino, sul dorso dei libri della sua piccola biblioteca. Sfregó e sfregó e sfregó, dappertutto, si spoglió e sfregó anche la sua pelle. Le cose facevano resistenza, non si cancellavano, non si disfacevano, né quelle brutte né quelle belle, non quanto lui avrebbe voluto. Si rese conto che di quella spugna avrebbe avuto bisogno ancora molte altre volte, e tornó a sdraiarsi sul letto, a guardare fuori dalla finestra, in un mare di brandelli di carne e pezzi di carta e schegge di legno e ricordi.
28/05/2010
Ha la faccia serena di un uomo che dalla sua giornata ha ricevuto già abbastanza, anche se mancano ancora otto ore all’inizio del sabato degli impiegati nine-till-five. Ci serve i caffè e ci racconta della sua barchetta a vela, e quando dice che in mezzo al mare non ci sono i motori noi pensiamo per un attimo alla nostra vita, ai trecentocinquanta chilometri che ancora ci mancano per arrivare a casa, all’implacabile trafila spesa e ufficio e cinemino e aperitivo e concertino e chat e non importa che quest’uomo vesta la polo macchiata dei baristi di autogrill, lui ha la pelle abbronzata dal sole che colora ma non scotta e noi abbiamo in mano i nostri palmari e se a questo bancone chiazzato di zucchero c’è qualcuno che invidia qualcun’altro indovina chi è.
27/05/2010
Quando il portiere appoggia il dito sull’interruttore la piccola piscina e il pozzo e il parco scivolano nel buio. Al primo piano l’uomo che sta seduto sul largo davanzale, con le spalle appoggiate a un’anta della finestra e le stringhe slacciate, guarda le ore. Alle due di notte rimangono una lunga nuvola bianca sopra le colline lontane, le stelle che in città non si vedono quasi mai, una manciata di ricordi tanto belli quanto dolorosi, l’anta semiaperta della grande doccia e la sensazione fisica di cose preziose da coltivare. L’uomo si alza, stira le gambe rimaste a lungo incrociate, dà un’ultima occhiata alla nuvola e chiude la finestra; in una città lontana la tastiera scrive la buona notte.
25/05/2010
La differenza tra noi è questa: che io non mi sognerei mai di dire a chicchessia una frase come “io ragiono per convinzioni e tu per convenienza, perché così ti hanno insegnato” (e chi, di grazia? e dove? alle frattocchie? a italianieuropei? in un angolo oscuro della bicamerale dalemiana?). E non lo direi mai, prima che per rispetto del prossimo, per senso del ridicolo. E poi, su, sostenere che quelli che ridevano del terremoto sono tanto cattivi e quindi chissene frega dei loro diritti non mi pare un’affermazione così eroica. Anzi, mi sembra decisamente più “conveniente” che sostenere il contrario, obiettivamente. Però ti posso assicurare che anche nel più profondo della mia anima sono straconvinto del fatto che i diritti delle persone vadano difesi sempre. E, ribadisco, tanto più quando si tratta di persone brutte brutte brutte, che dicono cose cattive cattive cattive. Il fatto che tu sembri proprio non concepire questo semplice principio mi lascia abbastanza raggelato. Il giorno che chiederanno la pena di morte per i pedofili, o la tortura in piazza per gli stupratori, o la pubblica gogna per gli scippatori di vecchiette, che farai? non vorrai mica difendere simile gente, no? Tutte persone certamente peggiori di quelli che ridevano per il terremoto. E quindi? Mettiamo la pena di morte, la tortura e la gogna, ma solo per le persone cattive? Massì, che vengano a prendere tutte le persone cattive di questo mondo, staremo senz’altro meglio, senza di loro, noi buoni. Basta con le persone cattive, che abbiano commesso un reato oppure no, che ci frega?
E quando, come diceva il poeta, verranno a prendere noi, che diremo? perché se il principio è la cattiveria, sai, come criterio è abbastanza soggettivo.
Francesco Cundari è una delle pochissime persone che mi impediscono di pensare che davvero non ci sia più speranza.
23/05/2010
21/05/2010
Le due donne guardano la mensola, sulla quale la più anziana ha steso un telo colorato prima di appoggiare i pacchetti e i biglietti di auguri. La scatola più grande contiene un magnifico paio di stivali. Un’altra un aggeggio elettronico del quale la donna ha sentito molto parlare ma che non saprebbe né chiamare per nome né tantomeno accendere. Gioielli. Un telefono. Un plico con il logo di un’agenzia di viaggi. Hai tanta gente che ti vuole bene, dice alla donna più giovane. Ho tanta gente che mi vuole, risponde questa. Le due donne rimangono in piedi, in silenzio, l’una che aspetta che l’altra inizi a sciogliere i fiocchi e aprire i pacchetti e magari sorridere. Entrambe, senza dirselo, pensano alle feste di compleanno di quando la donna più giovane era una bambina. Dimenticavo questa, dice la donna anziana estraendo dalla borsa appoggiata sul pavimento una busta bianca con il nome della donna più giovane scritto a mano, probabilmente con una stilografica. Era nella cassetta della posta, dice, porgendo la busta alla donna che le sta a fianco. Chi è, le chiede. Un amico. Un altro che ti vuole, mormora la donna anziana con la voce stanca. Sì, risponde la donna più giovane aprendo piano la busta e guardando il foglio a quadretti riempito da una scrittura fitta e elaborata. Sì, uno che mi vuole. Uno che mi vuole bene.
Ciao.
Ciao.
Come va?
Bene.
Oh, ottimo. Stasera vieni all’aperitivo?
Penso di sì, ma decido all’ultimo.
Come mai?
Niente, vedo chi c’è.
Capito.
…
…
…
Cosa c’è?
Niente.
Dimmi cosa c’è, per piacere.
Nulla. E’ che non capisci mai quando ti dico “bene” e non è vero.
20/05/2010
Vengo spesso all’Albergo FF. C’è sempre qualcuno da vedere, c’è sempre qualcuno che fa qualcosa. Se vieni a mezzanotte trovi il gruppetto che fruga negli archivi per trovare la canzone che ti dovrebbe far addormentare tranquillo, e c’è sempre uno che la trova e c’è sempre uno che gli dice oh che bella questa, quanti bei ricordi, grazie di averla messa su. Se passi alle tre c’è quello che ritorna dall’uscita con gli amici e ti fa l’elenco di quanta roba si è scolato, come se poi a te potesse davvero interessare quale bottiglia avesse in mano mentre girava intorno al Monumentale a ridere dei trans al lavoro. Se passi alle quattro c’è il gruppetto degli insonni, quello che studia e quella che ha gli incubi e quella che non riesce a staccarsi dal libro e tu prendi qualcosa perché a me le benzodiazepine non hanno mai fatto nulla. Alle sette inizia a riempirsi la sala della colazione con le sue facce assonnate e le sue borse sotto gli occhi, mentre nella hall vedi sempre qualcuno che esce di corsa dall’ascensore sapendo di aver già perso il treno e si prepara all’ennesimo rimprovero del capufficio. C’è chi sfoglia i giornali, chi butta un occhio allo schermo che passa Sky Tg24. C’è chi fa una telefonata alla moglie, chi chiama un taxi. C’è quella che occupa mezza sala con le valigie che le servono per andare in qualche posto esotico, e chissà che tempo fa e chissà la nube del vulcano. Durante il giorno c’è sempre un viavai al quale si fa l’abitudine, a volte la gente è nervosa e si manda affanculo senza un motivo vero e proprio, una gomitata data inavvertitamente al bancone del bar, una parola detta in un modo e capita in un altro. Ogni tanto arriva un cliente, prende la chiave della sua camera, manda un messaggio, prende l’ascensore e sparisce, e dopo cinque minuti arriva una ragazza in maglietta e jeans, o un uomo elegante in completo blu e cravatta bordeaux che sale senza dire nulla, e si ferma allo stesso piano di quel cliente. Ci sono sempre dei gruppi, a volte arrivano insieme, altre volte si riuniscono alla spicciolata, e non vanno in camera ma nelle meeting room, si chiudono dentro e se tu passi in corridoio e ti fermi davanti alla porta di quella stanza li senti che ridono e hai visto che cazzo di gonna si è messa su e che stronzata ha scritto ma è proprio un cretino e speriamo che a quella festa piova a dirotto.
A volte me ne sto seduto lì nella hall, perché io non sono proprio un campione di socievolezza e guardo la gente che passa, a volte mi sembrano tutti belli e spigliati e mi immagino le vite magnifiche che hanno, i figli campioni di baseball, i lavori che li portano in giro per il mondo, gli strumenti suonati da professionisti, sesso fantastico tutte le notti. Sto lì a guardare, fin quando i gruppetti vanno nelle loro stanze e la hall si svuota. Capita che mi trovo vicino a una donna, che sta in silenzio anche lei, alternando un’occhiata a una rivista a una alla gente che ci passa davanti. L’altra sera mi sono azzardato a chiederle se le andava di uscire, fare due passi e bere qualcosa insieme. Lei mi ha guardato con un’espressione strana, ha sorriso e mi ha detto “con piacere, ma sono astemia”. Ho sorriso anch’io, le ho risposto che non importa; ci siamo alzati, abbiamo dato al portiere le chiavi delle nostre camere, siamo usciti. Al bancone del bar due clienti stavano parlando dell’iPad.
18/05/2010
E’ che uno vorrebbe poco, un’amaca, un filo di vento, la testa sgombra. E’ che uno non vorrebbe costantemente correre in cerca di prove e conferme, e sudare e stancarsi e arrovellarsi. E’ che uno si vorrebbe risparmiare le attese, gli indomani e i dopodomani e gli allora com’é andata. Ma diceva quello – ed era uno che ne sapeva – che gli esami non finiscono mai, e forse l’unico modo di evitarli é prepararsi per la cena, dormire se ci si riesce e poi partire, oggi qui e domani là, che quando torni al punto di partenza nemmeno ti ricordi più com’era, tutto nuovo, tutto dimenticato, saltando da una cresta dell’onda all’altra.
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