Forse i libri servono a questo, a farti deragliare mentre li leggi, a farti uscire improvvisamente dalla storia che stanno raccontando per fiondarti fuori, lontano, chissà dove. Stavo leggendo un libro – lo sto ancora facendo, a dire il vero: l’ho iniziato ieri, lo finirò domani o dopo. Credo – e continuavo a provare una strana sensazione. Bel libro, a tratti molto, ma con qualcosa di indefinibile che mi pareva stonato. A un certo punto l’autrice dice di se stessa bambina e di un momento specifico nel quale provò una rabbia bluastra. Lì mi sono fermato e ho capito che quel che mi sembrava stonato non era tale, era solo accordato su una tonalità non mia. Bluastra. Una rabbia bluastra. Io amo gli aggettivi. Gli scrittori danno i nomi alle cose, sono quelli capaci di prendere l’innominato, definirlo e con il nome renderlo un componente ufficiale del mondo. Senza i nomi non c’è nulla, e le parole sono quello come prima cosa: nomi. Ma gli aggettivi. Anni fa andai a una mostra alla Triennale, una mostra che ricordo molto bella e della quale curiosamente mi è rimasto solo il titolo: le cose che siamo. Ci ho pensato spesso e sono convinto che è proprio vero, che noi siamo le cose che abbiamo intorno e addosso e a portata, siamo quel vestito lì, quel tavolo lì, quegli occhiali lì, quel fazzoletto lì. E però, gli aggettivi. Perché quel vestito, quel tavolo, quegli occhiali, quel fazzoletto sono a loro volta qualcosa che non siamo noi. Sono in un modo che non c’entra con noi, pur finendo per definirci. Ci sono poche cose più miracolose di un aggettivo esatto, capace di esprimere in una brevissima sequenza di lettere messe l’una in fila all’altra l’essenza intima di una cosa, dando anima a un nome.
(Ci sono anche poche cose più fastidiose e ingiuste di un aggettivo forzato, apposto per vezzo ed esibizione e non per verità. Siamo capaci tutti di chiamare fazzoletto quel pezzo di stoffa, ma poi che razza di mondo si apre.)
Bluastra. Non l’avrei mai usato e credo che non lo userei neppure ora, pur avendo capito bene – credo – cosa volesse dire in quel momento e in quel contesto. Però c’era un lavoro dietro quell’aggettivo, lo stesso lungo, a volte sfinente, talvolta esaltante lavoro che si accompagna al talento, quello dei calciatori che ripetono mille volte lo stesso gesto e ognuna di queste lo modificano di un nulla, mezzo grado di inclinazione del piede, e poi senza nemmeno pensarci ma avendoci pensato per una vita trovano l’impatto giusto, perfetto, incancellabile con il pallone che all’ottantasettesimo minuto arriva dalla trequarti sinistra. Le cose, come sono.