< City Lights. Kerouac Street, San Francisco.
Siediti e leggi un libro

     

Home
Dichiarazione d'intenti
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

Talk to me: e-mail

  • Blogroll

  • Download


    "Greetings from"

    NEW!
    Scarica "My Own Private Milano"


    "On The Blog"

    "5 birilli"

    "Post sotto l'albero 2003"

    "Post sotto l'albero 2004"

    "Post sotto l'albero 2005"

    "Post sotto l'albero 2006"

    "Post sotto l'albero 2007"

    "Post sotto l'albero 2008"

    "Post sotto l'albero 2009"

    "Post sotto l'albero 2010"


    scarica Acrobat Reader

    NEW: versioni ebook e mobile!
    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione mobi"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione mobi"

    Un po' di Copyright Creative Commons License
    Scritti sotto tutela dalla Creative Commons License.

  • Archives:
  • Ultimi Post

  • Sfumando
  • Srebrenica, 11 luglio
  • Gabo, e mio papà
  • “Vero?”
  • Madeleine
  • Scommesse, vent’anni dopo
  • “State andando in un bel posto, credimi”
  • Like father like son
  • A ricevimento fattura
  • Gentilezza
  • August 2012
    M T W T F S S
     12345
    6789101112
    13141516171819
    20212223242526
    2728293031  

     

    Powered by

  • Meta:
  • concept by
    luca-vs-webdesign

     

    30/08/2012

    Nessun evento trovato

    Filed under: — JE6 @ 09:30

    Sarà che la lista dei concerti era sempre più scarsa, sarà che gli espositori si erano ridotti a un paio di dozzine di venditori di Skoda, maglioni peruviani e torroni sardi, sarà che la location di buono aveva solo l’essere a cento metri da una fermata della metropolitana e ad un parcheggio silos a prezzo politico, sarà che c’è la crisi e mancano i soldi, sarà questo e altro ancora, ci saranno insomma un sacco di buoni motivi, ma a me il fatto che nel primo anno di governo di centro trattino sinistra dopo intere ere geologiche politiche a Milano il PD non organizzi la Festa Democratica fa tristezza anzicheno – ci si affeziona anche ai parcheggi di periferia, in fondo.

    29/08/2012

    Empatia

    Filed under: — JE6 @ 12:53

    Stamattina ho fatto di tutto per evitare le parti finali dei tg, quelle dedicate allo sport, e non ho girato su SkySport24, e tutto per non vedere la tristezza di Francesco Guidolin, di uno bravo che mi è sempre sembrato anche una persona per bene. Poi mi sono distratto per un momento, le stringhe da allacciare, le maniche da rimboccare, e lui era lì, e hai presente cosa vuol dire empatia, no? Ecco.

    26/08/2012

    Nodi, polsini, bottoni

    Filed under: — JE6 @ 21:15

    Poi è sempre così, che passa l’estate, quasi tutta, e arriva un momento in cui improvvisamente mi viene voglia di poter mettere una camicia e una cravatta e poter stringere bene il nodo per farla restare lì dritta al suo posto tutto il giorno, e poter allacciare i bottoni dei polsini* e poi mettere una giacca e magari chiuderla, mi viene insomma una specie di voglia di quel minimo di eleganza, se così vogliamo chiamarla, che mi posso permettere dati i limiti postimi da madrenatura, mi viene voglia di roba che mi piace ma che l’estate mi fa penare oltre misura, arriva quel momento ma è sempre ancora troppo presto, quest’anno persino più del solito, e insomma quel momento è arrivato ma ancora no, e ci vuole un po’ di pazienza, ma ci siamo quasi.

    * Non è proprio vero, quelli li tengo sempre aperti. Ma ci siamo capiti.

     

    23/08/2012

    Greetings from Sežana – Dove fermano i treni

    Filed under: — JE6 @ 23:25

    Ho una mezz’ora di tempo. Esco dall’autostrada, entro a Sežana, la attraverso. Cerco il cartello con il simbolo del treno, giro a sinistra. La scritta, nera su fondo bianco, dice Zelezniska Postaja, stazione ferroviaria. Parcheggio, entro aprendo quella che potrebbe essere la porta di una casa qualunque, mi lascio sulla sinistra un tavolo di legno solitario e sulla destra lo sportello della biglietteria, che ha chiuso alle 17.35. Ha cinque binari la stazione di Sežana, più un dedalo di altri sui quali riposano vagoni merci e locomotive sperdute in quantità incomprensibile. Al terzo binario sta fermo un treno fatto da due carrozze, che i graffiti dei writer sloveni hanno reso un’opera di pop art. Un uomo anziano sta seduto su una sedia posta a fianco dell’entrata dell’ufficio del capostazione, e guarda fisso nel vuoto. Da Sežana partono i treni, e a Sežana i treni si fermano. In senso letterale, perché qui inizia e finisce la linea ferroviaria slovena da questa parte del paese, l’Italia sta a una manciata di chilometri ma la linea ferrata è spezzata, da Trieste a Ljubljana non c’è modo di andare in treno, puoi solo salire a Opicina, e da lì spostarti a Sežana e poi prendere uno di questi treni eterni, centocinque minuti per ottanta chilometri. Mi guardo intorno, il bar è vuoto, c’è il silenzio ventoso dei film western di serie B, della stazione di Malles Venosta dove andavo a tirare sassi pigri nelle domeniche di libera uscita, della stazione di Iscra delle Ferrovie Compartimentali della Sardegna sulla linea Macomer-Nuoro dove stavo a fissare inebetito la porta scrostata di un ufficio buio nella cui oscurità riluceva l’ottone di un telegrafo. In pochi passi guadagno l’uscita, mi fermo davanti al cartello arancione delle partenze, faccio quattro conti, chissà quanto ci vuole per arrivare a Istanbul.

    21/08/2012

    Greetings from Ljubljana 2012 – In your shoes

    Filed under: — JE6 @ 14:28

    C’è qualcosa di strano nel trovarsi a raccontare a qualcuno un posto che non è nostro, conosciuto solo per averci passato giorni e giorni ma nel modo falso di chi viaggia per turismo o per lavoro. C’è una specie di superbia nell’indicare con la mano, con un cenno della testa o con un appunto qui c’è l’università, giri a destra e trovi il parco, se passi il ponte trovi la via dello shopping, di qui il parcheggio, di là la cattedrale, il mercato, le gallerie d’arte, il castello, il porto, qui si mangia benissimo, lì la birra, dietro di te i poster, cammina sempre dritto, alla terza gira a sinistra e guarda quella vetrina, c’è una specie di millantato credito perdonabile solo per il come lo fai, solo se tralasci le cose che piacciono a te e ti metti negli occhi e nei panni di chi ti ascolta – gli anglosassoni hanno questa espressione magnifica, “in your shoes”, è proprio quella cosa lì, provare a immaginare di essere altro da sé, come una specie di regalo, questo è per te, lì a destra c’è una pasticceria che è la fine del mondo, ma a te non piacciono i dolci, lo so ma che importa.

    17/08/2012

    Trecce

    Filed under: — JE6 @ 18:18

    Ho 27 anni, sono alta, nera e una volta ero magra. Ho lasciato il mio paese tanto tempo fa. Mio marito vive al nord, fa l’operaio e i vicini di casa dicono che ha preso l’accento di Bergamo. Io sto qui, a mille e mille chilometri di distanza, e lo sento poco, il telefono per gente come noi costa sempre troppo. Cammino lungo la spiaggia e mi guadagno una piccola cena e l’affitto da certa gente del mio paese intrecciando capelli. Siete strane, voi. State male con le trecce, eppure le volete, come volete gli anelli alle caviglie e i disegni sulle spalle o sui polpacci. Mi portate le vostre figlie e va bene, per loro si tratta di un gioco. Poi vi sedete voi. Io non ho diritto di giudicarvi, sono una straniera che ha bisogno dei vostri soldi, mi sta bene fare la figura dell’animale del circo come quello che ieri ha lasciato il paesino con i leoni impolverati e lo struzzo magro per la fame. Vi sedete e parlate, parlate, parlate. A volte chiedete a me di dire qualcosa, chi sono e da dove vengo, ma lo so che non mi ascoltate. Mi chiedete come state con quelle trecce di cui riempirete i vostri telefoni e io vi dico bene signora, sta benissimo. A me non importa, resterete ridicole per tre giorni, poi vi lamenterete del prurito, dello shampoo che non lava, della sabbia che si incastra e allora tornerete ai capelli che vi hanno dato le vostre madri, alle quali, ne sono certa, non sarebbe mai venuto in mente di farsi le trecce di un paese sconosciuto e lontano. Ogni tanto una di voi si siede e tace mentre io lavoro, e allora ne approfitto, lavoro guardando il mare tanto non siete capaci di riconoscere una treccia bella da una schifosa. Guardo il mare, cerco il sole in cielo, trovo il nord e il sud, da una parte mio marito in fabbrica, dall’altra il mio paese, dove le donne non portano le trecce.

    11/08/2012

    Il sabato del villaggio

    Filed under: — JE6 @ 10:24

    L’uomo si siede al tavolo della pensione che porta il numero della sua camera. La donna si asciuga le mani nel grembiule, prepara un vassoio – una tazza di latte bianco, due fette biscottate, una piccola confezione di marmellata all’albicocca – e si avvicina. Buongiorno, buongiorno, come andiamo oggi, l’uomo non risponde, pare distratto. Va tutto bene chiede la donna, certo non si preoccupi risponde l’uomo. Se mi permette lei non mi convince, dice la donna, e l’uomo risponde guardi, ieri non una telefonata, non una mail, non un messaggio di lavoro, mi pare strano, ho fatto tutti i controlli, il server di posta funziona, ho telefonato a un collega fingendo di chiamarlo per sapere come stava, come andavano le sue ferie e quello dice tutto a posto, non so. La donna appoggia una mano sul tavolo, senta, lei dovrebbe essere in ferie da una settimana, cerchi di rilassarsi, ma io sono rilassato, ma per tutta la settimana mi hanno cercato, io rispondevo, facevo conti, pensavo, adesso di colpo silenzio totale, sarebbe preoccupata anche lei. La donna alza la mano dal tavolo, la allunga verso il cliente di una vita, gliela appoggia su una spalla, signor Faussone, gli dice, ieri era sabato, succede che la gente si ferma di sabato, ad agosto, anche durante le ferie, stia tranquillo e si goda la colazione. Lui guarda un po’ nel vuoto, poi beve veloce il suo latte bianco, non sono abituato, risponde.

    09/08/2012

    Sugli scalini della piazza

    Filed under: — JE6 @ 17:30

    Sono fermo al semaforo in attesa di attraversare la strada quando li vedo arrivare. Non hanno niente di particolare, se fosse scattato subito il verde forse non li avrei nemmeno notati. Invece mi passano nel campo visivo, e chissà perché li seguo con lo sguardo. Avranno una trentina d’anni, due volti normali, vestiti bene senza eccessi, senza particolari curiosi. Potrebbero essere due fidanzati, due amici, due colleghi. Camminano parlando tranquillamente, non hanno telefoni in mano, lui ride. Si fermano, fanno come per sedersi sugli scalini di marmo sporco che circondano la piazza, lei fa un gesto come per dire spostiamoci un po’ in là, forse dal locale che in quel momento sta alle loro spalle esce una musica a volume troppo alto. Tornano sui loro passi di una decina di metri, si siedono, lei alla destra di lui. Io guardo l’orologio e poi il semaforo, realizzo che avrei dovuto passare quel semaforo due o tre minuti fa, ma tutto sommato non ho così tanta fretta e allora vado verso di loro, senza fissarli, come se stessi andando a prendermi un caffè, come se fossi un turista. Mi siedo anch’io sugli scalini della piazza, guardo la gente che va avanti e indietro lungo i marciapiedi, i taxi, il mio semaforo che cambia colore. Ogni tanto mi volto verso i due, li ascolto parlare, una normalissima conversazione tra persone che si conoscono, chissà quanto bene, cose di lavoro, cose di vacanze, il caldo. Anche lui come me guarda i passanti e il traffico, lei parla di più ma lui si capisce che ascolta perché ogni tanto risponde e non si limita a un monosillabo, dice qualcosa, fa una domanda, sempre guardando dritto avanti a sè. Poi c’è un momento, lei cerca qualcosa nella borsa che tiene tra i piedi, appoggiata su uno degli scalini di marmo sporco che circondano la piazza, e in quel momento lui si gira verso di lei e la guarda, lei non se ne accorge, lui la guarda come se volesse fissarsi negli occhi ogni dettaglio, e in quel momento mi sembra anche di capire di cosa non stavano parlando, poi lei trova quel che stava cercando e lui distoglie lo sguardo, incrocia il mio senza però vedermi. Per me si sta facendo tardi, vorrei avvicinarmi e ringraziarli perché a loro insaputa mi hanno dato due minuti di tranquillità, come guardare un lago dove i pescatori gettano le lenze senza attendersi nulla, ma se lo facessi ovviamente mi prenderebbero per pazzo, così mi alzo sentendo tirare tutti i muscoli delle gambe, vedo un piccolo animale nero muoversi veloce a metà strada tra me e lui che adesso sta dicendo qualcosa sui gestori telefonici, ho l’impressione che abbia visto quello scarafaggio e stia facendo in modo di non farlo notare a lei, per non farla alzare di corsa da quegli scalini di marmo sporco che circondano la piazza. Il semaforo è rosso, guardo che ore sono, tra poco arriverà il verde.

    03/08/2012

    You are here

    Filed under: — JE6 @ 09:03

    Non ho mai fatto shopping, viaggiando. Non sono mai stato uno di quelli che parte con una valigia e torna con due: non ho esigenze particolari che possano essere esaudite solo a San Francisco o a Londra, mi annoio ad andare per negozi, l’ho sempre trovata una perdita di tempo (ma non ho nulla contro chi lo fa: qualcuno che faccia girare l’economia mondiale ci vuole pure). E però porto sempre a casa qualcosa: un magnete – se è la prima volta che vado in quel posto – e una cartina della città. Ne ho un armadio pieno, alcune di posti improbabili (credo di averne una di Pesaro, presa l’anno scorso quando mi sono fermato ad ascoltare Massimo D’Alema). Sono le cartine che ti danno in albergo, sulle quali le persone della reception segnano con un circolino a penna la posizione dell’hotel e poi ti mostrano dov’è il centro – we are here sir, turn right and then right again – quelle che stacchi dal centro delle guide stile Lonely Planet, quelle che hanno i bordi istoriati di pubblicità di ristoranti e musei delle cere e locali di lap dance; ho cartine di trasporti pubblici di ogni dove, la metro di New York, quella di Parigi, e Londra e Madrid e quella delle linee che collegano l’aeroporto di Monaco alla città e al resto della rete. Sono quasi tutte mezze accartocciate perché giro tenendole nella tasca dei jeans, alcune sono un po’ grossolane, di quelle con i monumenti messi in evidenza ma con le vie disegnate un tanto al chilo che ti tocca aprirle e girarle e ribaltarle perché non capisci dove sei, e sono tutte piegate male perché io sono di quelli che si arrende di fronte ai bugiardini, non sono capace di ripiegare seguendo le pieghe originali, invento le mie, e le mie ovviamente non vanno mai bene. Mi piace avere una piccola mappa con me, anche se sto in un posto che ormai conosco bene – di Roma ne ho cinque o sei -, mi dà sicurezza quando decido, come faccio sempre, di prendere e cambiare strada, se lì c’è una sinagoga magari c’è anche il quartiere ebraico, andiamo a vedere. E mi piace conservarle, le mappe. Sono le uniche cose che tengo dei viaggi che faccio, le tengo perché ci tengo, ogni tanto riordino quell’armadio e me le riguardo, qui la fabbrica della Samuel Adams, qui il ponte sul Reno, qui gli uffici di Correos de Espana, qui il monte dei pegni ed è come guardare un album di fotografie dove i ricordi non sono immagini ma nomi di vie e piazze e stazioni della metro – you are here.

    PS – C’è un blog, lo scrive un amico, uno tanto bravo quanto pigro – e infatti lo scrive solo perché lo obbligano. Si chiama Viaggi da fermo, e tutti i racconti partono “da una notizia, da una fotografia, da una mappa online”. E’ diventato il mio blog preferito: e come potrebbe essere altrimenti?

    01/08/2012

    Blu?

    Filed under: — JE6 @ 15:35

    Il vecchio signore cammina lentamente attraversando la piazza; è arrivato in città poche ore prima, il tassista lo ha portato all’albergo dove ha trascorso le ultime trenta estati e dove passerà anche questa, lui è sceso, ha salutato la figlia dei proprietari, è salito in camera, si è sciacquato la faccia, ha disfatto la valigia, ha aperto la ventiquattrore in pelle consumata dal tempo e dai viaggi, ne ha estratto un paio di fogli bianchi e altrettante buste anonime, si è seduto allo scrittoio. Ora sta passeggiando, appoggiandosi al bastone che finge di usare per vezzo come faceva fino all’anno scorso e che invece oggi gli serve per non sentire i dolori di un femore rotto mesi prima come capita alle persone della sua età. Si guarda intorno, stupendosi di come palazzi e balconi e fontane e giardini che conosce a memoria gli sembrino ancora nuovi. Un ragazzo apre la custodia della chitarra, appoggia le spalle al muro del palazzo della banca e inizia a riscaldarsi con un arpeggio di una vecchia canzone rock. Il vecchio signore arriva di fronte a un palazzo del centro storico. Alza la testa, lo guarda, si ferma di colpo proprio in mezzo alla via pedonale affollata. Una ragazza gli finisce addosso, lui barcolla, lei lo tiene per un braccio e gli chiede scusa, lui non risponde, lei fa per andarsene ma si ferma, si sente bene gli chiede, lui non risponde, signore si sente bene, lui non risponde, vuole bere qualcosa, si vuole sedere, venga con me dice la ragazza, lui la segue docilmente e vanno a sedersi ai tavolini all’aperto di un bar che sta proprio di fronte a quel palazzo che il vecchio signore continua a fissare con aria smarrita. Cosa vuole bere chiede la ragazza, una limonata andrà benissimo signorina risponde il vecchio signore, la ringrazio molto, si figuri, mi ha fatta spaventare, è sicuro che va tutto bene, sì non si preoccupi, lui la guarda mentre lei fa un cenno al cameriere, è alta, ha i capelli lunghi e mossi, porta una canottiera abbastanza attillata, una gonna corta e dei sandali leggeri e bianchi, ha un sorriso dolce e timido che fa a pugni con quel fisico che fa girare la testa degli uomini, il cameriere porta l’ordinazione, lui beve in silenzio, lei altrettanto, quando finiscono il vecchio signore lascia una banconota sul tavolino, lei è stata davvero gentilissima signorina, ma no, si figuri, non ho fatto nulla, lei ha fatto molto più di quanto crede, va bene se lo dice lei le credo, senta signorina dovrei farle una domanda, mi dica, lo vede quel palazzo, quello di fronte dice, sì quello, sì, vede io sono daltonico e con i colori ho sempre dei dubbi ma per trent’anni ho creduto che quel palazzo fosse di un colore simile al rosso, avevo anche chiesto conferma a una persona cara nonostante mi vergognassi a fare una domanda del genere e oggi quel palazzo mi sembra proprio di un altro colore, la ragazza lo ascolta un po’ confusa, e quindi signorina mi perdoni perchè magari le sembro un po’ via di testa e forse lo sono ma mi dica quel palazzo di che colore è diventato, è proprio come lo vedo io? è blu? e la ragazza lo guarda e la confusione sembra diventata tenerezza per quel vecchio signore con il bastone e una giacca di taglio antico e le scarpe comode da passeggio, sì è blu, lo hanno ridipinto qualche mese fa, è cambiata la proprietà e hanno fatto dei lavori di ristrutturazione, il vecchio signore non dice nulla, la sua faccia non ha espressione, ancora grazie signorina le auguro buona serata, si alza un po’ a fatica facendo leva sul bastone e si allontana piano, la ragazza lo guarda allontanarsi, con la mano destra che tiene il bastone e la mano sinistra che si avvicina alla tasca della giacca, da dove esce quella che sembra essere una busta bianca.