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31/03/2011
L’uomo esce dal grande portone di vetro del palazzo di otto piani con il passo stanco di chi ha avuto una giornata faticosa, o una discussione sfinente. Si passa una mano tra i capelli lunghi, e senza motivo si ricorda di quando, vent’anni prima, portava anche la barba, e i capelli erano ancora più lunghi, ed era più magro, e tutti gli davano trent’anni e lui sorrideva e diceva cambia la prima cifra. Si ferma in mezzo al marciapiede, tira un lungo sospiro, fa passare gli occhi sugli scooter parcheggiati, sull’insegna del ristorante che sta sul lato opposto della via, sui manifesti elettorali, li guarda ma non li vede, li vede ma non li guarda. Mentre si avvia verso la macchina, che come sempre ha parcheggiato in divieto di sosta là, dopo l’incrocio, incrocia un altro uomo che sta terminando una telefonata, lo sente dire sono qui sotto, aprimi. Lo segue con lo sguardo, lo vede schiacciare un pulsante del citofono, lo guarda entrare nello stesso portone dal quale lui è uscito solo un paio di minuti prima. Si ferma, riprende a camminare, si ferma nuovamente. Si porta verso un albero, uno di questi alberi di città che vengono fuori dall’asfalto, con le radici che sembrano vene varicose, e vi si appoggia con le spalle, accendendo una sigaretta. Dopo un tempo indefinito, durante il quale sul marciapiede sono passati cani in libera uscita e impiegati che hanno fatto tardi in ufficio e lui ha finito le sigarette senza mai staccare le spalle dal tronco pietroso dell’albero, l’uomo che ha incrociato esce dal grande portone di vetro. Lo guarda estrarre il telefono dal taschino della giacca, e subito rimettervelo, alzando la testa. I due uomini incrociano lo sguardo, uno fermo con le gambe ormai intorpidite e l’altro che cammina lento andandogli incontro. L’uomo più anziano getta il mozzicone della sigaretta e lo spegne col piede, raddrizza le spalle e dice buonasera, l’uomo più giovane risponde buonasera e si ferma e si capisce che non sa dove mettere le mani, spingerle nelle tasche gli pare maleducato e non ha una borsa o uno zaino al quale aggrapparsi. L’uomo anziano fa un mezzo sorriso, poi dice non ci conosciamo ma penso che dovrei offrirle un caffè se non ha fretta, l’uomo più giovane restituisce il mezzo sorriso e risponde no, non ho fretta, in fondo ci conosciamo bene, è da tanto tempo che la aspetto.
30/03/2011
Non so se è per mostrare il lato umano dell’azienda che vogliono pubblicare le nostre fotografie sul sito web. Comunque, arriva la convocazione: quel giorno, a quell’ora, cercate di non prendere appuntamenti – e il fotografo che manda un suo messaggio e dice vestitevi come vi pare, indossate qualcosa che rispecchi la vostra personalità, e tutti a rendersi conto che hai voglia, che già definire la propria personalità è un’impresa disperata, figurati trovare nell’armadio qualcosa che lo faccia con colori e tessuti e bottoni e risvolti, dici che un vestito rosso è esagerato, non penserai di non mettere la cravatta, così mi tocca andare dal parrucchiere. Comunque si aprono i teli, si provano le luci, sì puoi tenere le mani in tasca, dai ne facciamo un’altra, forse è meglio di tre quarti, io toglierei la giacca, così adesso abbiamo un lungo striscione, un paio di metri abbondanti di carta che adornano uno dei muri dell’open space, ci sono i rettangoli delle nostre foto, gli uni sopra gli altri, qui è pieno di belle ragazze ma in queste foto sembrano ancora più belle, e sorridiamo (quasi) tutti, anche in quella che abbiamo fatto sedendoci stretti sulla scala, proprio come una classe di liceali – nel frattempo qualcuna ha cambiato colore dei capelli, io mi sono fatto crescere la barba, le strade si riempiono di manifesti di volti sereni e affidabili, le elezioni si avvicinano.
29/03/2011
Che poi, il problema non è mica la morte dei blog – il problema son quelli che si san solo esprimere in centoquaranta caratteri, e pensano in centodieci.
28/03/2011
Forse aveva ragione Lombroso, o forse è il prodotto del lavoro di decenni di annewintour, forse è questo e pure la deformazione professionale di una vita passata a dividere in gruppi di persone unite da elementi comuni, non lo so. So che spesso mi capita di guardare fotografie vecchie o recenti, o immagini televisive che mi mostrano volti e avere la sensazione che quelle persone non potessero avere altro che quei tratti – il camorrista, lo studente di ingegneria, il quarantenne ottimista e di sinistra, la donna in carriera, il figlio di buona famiglia e così via, e spesso la cosa mi consola, mi consola vedere che in quest’epoca di sforzi tremendi e continui di coltivazione del nostro io siamo così uguali gli uni agli altri, anche visivamente – dai tratti somatici agli abiti che portiamo alle acconciature che coltiviamo – tanta cura per non essere distinguibili, come i cinesi agli occhi di un occidentale.
26/03/2011
Ieri stavo davanti alla tomba di Gramsci, al cimitero acattolico di Roma, e guardavo il piccolo albero che la protegge, e quel pendaglio con la E di Emergency appeso a uno dei suoi rami, e mi chiedevo perché non si riesce a resistere questo impulso di mettere simboli su tutto – anche su qualcuno o qualcosa che è già simbolo di per sé.
25/03/2011
Una decina d’anni fa scannerizzai una mia firma, per motivi di lavoro. Mi sedetti davanti a un foglio A4 bianco, feci una quindicina di firme, scelsi quella che mi sembrava la migliore; da allora me la porto dietro, da un hard disk all’altro, e continuo a usarla – offerte, presentazioni, cose così.
L’altro giorno una persona che stava rivedendo un mio lavoro ha guardato quella vecchia immagine e mi ha detto “Che bella firma che hai”, e allora ho pensato che oggi non firmo più così, firmo in modo abbastanza diverso; mi sono chiesto se capita anche ad altri di cambiare scrittura da adulti – ma non è solo quello, è che la cosa della firma è particolare, sei tu, nome e cognome nero su bianco, è come se fosse la tua fotografia, cambiare la firma è come farsi una plastica facciale, o almeno un lifting – qualche tempo fa ho firmato un foglio ma quella riga continua mi era venuta tanto male che mi dava fastidio guardarla, quello non ero mica io, allora ci ho tirato sopra una riga e ho firmato un’altra volta, qualche centimetro più in là, come un’altra iniezione di botox.
23/03/2011
L’uomo si avvicina al centro della strada, camminando sulle strisce bianche. Il braccio sinistro tiene stretto un mucchio di carte e un blocco appunti. Guarda lo schermo di un telefono. Io ho un pezzo di focaccia in mano, lo mordo mentre butto un occhio prima a sinistra e poi a destra, nel momento in cui inizio ad attraversare la via. Vedo la macchina che arriva veloce, troppo veloce, è una macchina grossa e grigia, il parabrezza rimanda un riflesso del sole di questo giorno di primavera. Grido, e solo dopo mi renderò conto che ho usato la stessa parola che usavamo da bambini, una parola in dialetto, noi che la lingua di qui non la parlavamo mai – ocio, occhio, stai attento – grido e l’uomo, senza capire, non fa altro che fermarsi, sicuro di poterlo fare perché sta camminando sulle strisce bianche, non fa altro che fermarsi e girare la testa verso il punto dal quale ha sentito arrivare un grido. Mi vede, e probabilmente ho ancora la focaccia in mano vicino alla bocca, e in quel preciso momento la macchina grossa e grigia sfreccia, a un passo da lui. Per un istante si ferma tutto, le persone che escono dal centro uffici, il tram all’incrocio con il grande viale che porta fuori città, i clienti della farmacia. Io faccio i due o tre passi che mi dividono dall’uomo, lui mi fa un mezzo sorriso stupito e mi dice grazie, io gli rispondo figurati, non l’avevo proprio vista, non ha nemmeno rallentato, grazie, ma di nulla. Facciamo un’altra decina di passi, affiancati, io prendo a destra, lui invece a sinistra, mi guarda e dice serio ma senza enfasi mi hai salvato la vita e io non rispondo perché mi pare una cosa troppo grossa per aver semplicemente gridato come facevo quando avevo undici anni e il centravanti della squadra del palazzo rivale si avvicinava di corsa alla nostra porta, ciao ci vediamo, ciao buona giornata.
21/03/2011
Da quando ho cambiato lavoro attraverso Piazza Duomo ogni giorno. Da sinistra a destra la mattina, da destra a sinistra la sera. Alzo la testa e per quel minuto che ci vuole per andare dalla metropolitana al capolinea del tram lo guardo, perché funziona così, è talmente grande e maestoso e bello che ogni volta ci trovi qualcosa che non sapevi. Oggi ero fuori orario, c’era il sole alto e la velocità era più bassa – sai che noi diciamo ora di punta e loro invece rush hour, quando corri, quando devi correre – e in piazza non c’era la gente che andava a lavorare, c’erano i turisti che si facevano le foto e i bambini spaventati dai piccioni, ho attraversato tutta la piazza e mi sono messo in un angolo in ombra, mi son preso quei venti secondi che fanno la differenza tra un tram acchiappato al volo e dieci minuti di attesa alla fermata, c’era solo il rumore di sottofondo delle città, della città, poi là in alto ho visto che c’era una bandiera che sventolava, il tricolore attaccato a quella specie di lancia che sta vicino alla mano destra della Madonnina, prima ho pensato beh ma dai, ma cazzo, ma c’era proprio bisogno, poi son salito sul tram che ormai era pronto a partire e lì, mentre andavo verso la Crocetta e guardavo la gente che lavava le vetrine e comprava il giornale mi son detto ma sai che han fatto bene, che quello dicono che sia il nostro simbolo, che tutti i milanesi sono rappresentati dalla Madonnina – e la religione non c’entra nulla – e allora se è così allora va bene che lassù ci sia quella bandiera, forse dovrebbe starci ancora un po’.
20/03/2011
Ma voi, anche voi avete avuto questa sensazione che eravate lì a farvi un caffè, avete acceso la radio per sentire le previsioni del tempo e vi siete ritrovati con una guerra alle porte di casa? Anche voi avete provato a far mente locale, vi siete ricordati di quanti mesi e addirittura anni ci vollero per decidere l’intervento armato in Kossovo e pure in Iran e Afghanistan e questa volta invece oplà, tre telefonate, una riunione ed ecco i Cruise che volano? Lo so, il terremoto, Fukushima, ma non so, è come esser stati via per il weekend, rientrare a casa e trovarla spostata in un altro quartiere – stai lì allocchito e dici ma come cazzo è successo.
19/03/2011
E’ da un po’ di tempo che quando finisco di guardare i video di Diego, come le puntate di Report o di Presa Diretta, mi trovo a fare i conti con la sensazione del già visto. Fosse almeno tutta colpa loro, e invece.
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