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31/10/2009
C’è gente che per farsi passare il malumore si dedica allo shopping. A volte ci provo anch’io, vedi oggi: compro libri. E’ che Philip Roth – l’Immenso – non è esattamente quel che ci vuole per rimettersi in pace col mondo.
Magari la faccio un po’ troppo semplice, ma io credo che un paese sia spacciato quando tutto suona quantomeno verosimile.
Repubblica.it
30/10/2009
Avresti dovuto pensarci. Un errore lo possono fare tutti. Un errore lo fanno tutti. Quando lo fai, chiedi scusa. Tu, invece; tu, no. Sei schizzata fuori da quell’incrocio, attaccata con entrambe le mani al volante di quella scatoletta vecchia e sporca, stretta nel tuo giaccone verde, con la pettinatura scomposta delle otto del mattino e la ricrescita non curata. Ti ho vista, non ho fatto altro che alzare il piede dall’acceleratore, mi sei sfilata davanti piena di tutta la fretta e la pochezza dell’universa; ti ho mandato un sorriso ironico e ho alzato il pollice, a dirti “ehi, brava, complimenti” e tu, ecco, tu lì hai fatto l’errore. Potevi alzare la mano e per un decimo di secondo chiedermi scusa, in quel gesto io avrei messo dentro la stanchezza della vita cittadina, la fretta, il dover portare i bambini a scuola arrivando però puntuali in ufficio, l’attesa che ogni mattina bisogna fare a quell’incrocio, l’arrivo del freddo e delle prime nebbie, la crisi economica, un marito assente, la preoccupazione per i genitori che invecchiano. Ti sarebbe bastato, per un decimo di secondo, chiedere scusa e puntare sulla mia complicità, perché siamo tutti sulla stessa dannata barca. E invece hai stretto la mano a carciofo, ho letto il tuo labiale – vaffanculo, cazzo vuoi – e allora ti ho vista per quel che sei, una donnina meschina e livorosa, una di quelle che rende questo posto lo schifo che è, ogni giorno un po’ di più. In quel momento ho realizzato che avere sotto il sedere un Hummer poteva tornarmi utile, poteva tornare utile a tutti, poteva servire a fare un po’ di giustizia e un po’ di pulizia. Ho proseguito per duecento metri per allontanarmi dall’incrocio, ho fatto inversione, ho spinto per ritrovarti – e non ci è voluto molto per farlo. Mi sono messo tranquillo alle tue spalle, ho avvisato in ufficio che sarei arrivato una mezz’ora dopo, ti ho seguita sperando che tu prendessi il vialone che porta fuori città, quello dove di sera lavorano i trans che magari conoscono tuo marito, quello con i canali su entrambi i lati. Sono stato fortunato, lo hai imboccato, e addirittura hai preso la deviazione per il vecchio paesino ai bordi del parco agricolo, quello ormai disabitato, quello dove c’è una curva a gomito e una vecchia casa colonica, il punto perfetto per puntarti, spingere sull’acceleratore fino al limite massimo, approfittare della diversa traiettoria e sfondare la scatoletta vecchia e sporca proprio all’altezza della tua portiera, trascinandola a spiaccicarsi contro il muro della casa colonica. Credimi, non avrei voluto farlo, ma eri stata tanto inutilmente sgarbata, eri stata tanto stupida che è stato inevitabile. Sarebbe bastato chiedere scusa, ma lo so: “sorry seems to be the hardest word”.
29/10/2009
Una buona notizia: tra vent’anni non dovremo sentirci in obbligo di rivalutare i cinepanettoni Boldi-De Sica, visto che uno dei protagonisti ammette che questi sono stati giustamente bastonati. Avremo già tante cose di cui pentirci e vergognarci, questa ce la potremo risparmiare.
Corriere.it
28/10/2009
Una delle grandi tragedie del nostro tempo è la perdita del senso del ridicolo. Peraltro, se questo abbondasse, ci perderemmo un sacco di divertimento.
26/10/2009
Trovo francamente un po’ patetico, a sconfitta passata in giudicato, ricordare che Bersani sosteneva che il segretario doveva essere scelto dagli iscritti come se questa idea, che resta di puro buonsenso (sostenuta da una considerazione pratica: che cazzo facciamo se due elezioni per la stessa carica danno due risultati diversi a due settimane di distanza l’una dall’altra), togliesse valore alle primarie e quindi illuminasse di luce ironica la vittoria del Bersani medesimo. Adesso – con calma, eh: qui si è pazienti – aspettiamo da franceschiniani e mariniani approfondite disamine sul come e perché la società civile abbia votato in massa l’uomo di apparato, il grigio burocrate che schifa la gggente. Ah, certo: ha vinto il PD (buona), noi siamo gli unici che crescono nella società (buona-bis). Va bene.
25/10/2009
[For PD people only] Perché altrimenti, nei prossimi dieci-quindici anni, un’altra possibilità di vincere un’elezione mica ce l’avrete, io vi ho avvisati.
22/10/2009
Salgo sul trolley che collega San Diego al confine messicano con una certa titubanza. Tutti coloro ai quali ho detto che stavo pensando di farci un salto nelle poche ore disponibili prima di prendere il volo di ritorno hanno scosso la testa, dalla concierge dell’albergo (“Are you sure Sir? There are so many shootings there everyday”) alla mia amica Jessica che vive qui da tanti anni (“I think I’ve been there two times, always hit and run”), passando per tutti coloro che mi invitavano ad andare piuttosto a La Jolla o perfino nell’orripilantemente turistica Old Town. Il Metropolitan Transit Authority Officer F. Beltran, al quale ho chiesto conferma che il treno che stavo prendendo fosse quello giusto, ha ammiccato e mi ha chiesto se andavo a Tijuana a cercar ragazze, e mi è sembrato sinceramente stupito – e fors’anche un po’ addolorato – nel ricevere un diniego, al quale ha fatto seguire una serie di consigli su dove andare nel caso avessi cambiato idea.
Arrivo al confine pensando che forse davvero tutto il mondo è paese, che la sensazione che si ha uscendo da San Diego e passando per Barrio Logan e la base navale USA e Palomar Street fino a San Ysidro è la stessa che si prova uscendo dal centro di Parigi e attraversando la banlieue – come fare surf sui cerchi concentrici della ricchezza e della bellezza che vanno spegnendosi allontanandosi da downtown. Percorro qualche centinaio di metri, e Tijuana e il Messico sono esattamente quelli che mi aspettavo e conoscevo: i marines dalla faccia olivastra a curare il confine pedonale, il cielo azzurro, il rumore di fondo di un milione di automobili e soprattutto di enormi pullman del trasporto pubblico in perenne movimento. Vedo centinaia – letteralmente centinaia – di “Clinicas dentales”, con insegne che mostrano bocche sfasciate da qualsiasi tipo di storpiamento dentale ricostruite dalle abili mani degli odontotecnici messicani. Vedo altrettante centinaia – letteralmente centinaia – di “Farmacias” dove si possono comprare gli equivalenti di Viagra e Tramadol e Cialis e Amoxicillina e qualsiasi altra medicina possa venire in mente con uno sconto del 40% rispetto alle tariffe americane. Insomma, Tijuana è l’hard discount dei ricchi gringos della Southern California. Lo è anche per l’alcool: una bottiglia di birra a novantanove centesimi di dollaro americano, tre a due dollari e cinquanta – più tardi mi fermerò in un bar e prenderò due margarita, una birra, nachos e tacos de chorizo a sei dollari e trenta. A Tijuana vivono un milione e mezzo di persone, dal confine passano ogni anno sessantaquattro milioni di umani (rendendolo, così si dice, il più trafficato confine del mondo): e sono tutti in strada; tutti, dal primo all’ultimo. Ho come il vago ricordo di Marrakech, di un fluire costante e implacabile di uomini, donne e bambini dall’aspetto assolutamente identico a quello dell’iconografia con la quale siamo cresciuti – i baffi a manubrio, i seni grandi e sodi, gli occhi spalancati – il profumo delle carni cotte e vendute dai banchi degli ambulanti, i suonatori che arrivano dalle vie laterali con le loro chitarre a tracolla pronti per intrattenere gli avventori dei bar e dei ristoranti, i poliziotti dall’aria truce, le insegne che invitano all’acquisto o all’affitto degli abiti per la prima comunione o per il battesimo, i negozi con cinquecento marche diverse di tequila, i millemila cavi che portano corrente da generatori improbabili a utilizzatori ancora più improbabili, i sombreri, le poltroncine sfasciate sulle quali siedono venditori annoiati, le rivendite di articoli religiosi mischiati ai teschi del Dìa de los Muertos, i lustrascarpe – quelli con i baracchini fissi e quelli ambulanti, e uno verrà a offrirsi di lucidare le mie Converse gialle lasciandomi tanto sorpreso per l’incongruità della richiesta da farmi quasi dire di sì. Insomma, è tutto “as seen on tv”, e non dirò che la cosa mi dispiace: è così, e basta. Faccio la mia mezz’ora di coda per il rientro pedonale negli USA, realizzo di non aver mai avuto né paura né disagio in queste tre ore messicane. Ma sono tre ore, sono niente.
21/10/2009
Torno verso l’albergo, sono le dieci di sera di una qualunque sera di ottobre. I marciapiedi della Fourth, della C e della D Street sono pieni di homeless con i loro cartoni, i loro sacchi a pelo sdruciti, i loro carrelli del supermercato pieni di tutti gli averi – scatole, stracci, immagini di santi, radio che non funzionano più. Rallento il passo senza fermarmi, un po’ per timore e un po’ per non dare fastidio. Dormono tutti, profondamente, di un sonno di piombo; penso a quanta gente conosco (incluso il sottoscritto) che si definisce insonne o – come è più bello dire – sleep deprived. C’è qualcosa che non va.
20/10/2009
Sui marciapiedi della Fifth Avenue sciamano tutti, turisti, poliziotti, coppie attempate, visitatori di fiere, ragazze dalle grandi tette e dai vestiti cortissimi. Entrano da Croce’s ed escono da Fred’s, si fermano da Ghirardelli e ripartono da Sam Goody, tutti sorridenti, e belli, e in forma. John Doe è come se venisse fuori dall’ombra, allampanato e scuro, le scarpe larghe, i pantaloni stracciati, un soprabito oggi nero e ieri chissà che lo copre fino alle ginocchia. In faccia ha il ghigno di chi ha la testa da un’altra parte, e in tasca non ha nulla. Si ferma davanti a un costume di Halloween, uno dei mille che si trovano appesi alle porte di case e negozi, lo guarda, sorride, gli dà un buffetto, torna a muoversi, si perde ancora: non lo vedo più.
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