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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    31/10/2021

    Dormi, dormi

    Filed under: — JE6 @ 18:28

    Anni fa, per circa sei mesi feci parte di un gruppo di lettori che una volta alla settimana – io mi ero riservato il sabato pomeriggio, non avendo altre disponibilità di tempo – passava due o tre ore nelle camere di un paio di reparti di un grande centro di cura e ricovero dell’hinterland milanese. Entravamo in punta di piedi, ci presentavamo e chiedevamo ai pazienti se gradivano passare un po’ di tempo ascoltandoci leggere qualche pagina dei quattro o cinque libri che ognuno di noi si era portato da casa dopo cento riflessioni. La risposta più frequente era “no grazie, sono un po’ stanco” ma talvolta capitava di sentirsi dire di sì, magari soltanto per l’imbarazzata cortesia che si sente di dovere a qualcuno che ti avvicina con un gesto gentile o che vorrebbe essere tale. Delle molte reazioni alle quali andammo incontro, una mi è rimasta in testa e nella memoria. I responsabili del progetto ci avevano preparati, ma la prima volta che la persona stesa nel letto a fianco del quale stavamo seduti con il nostro libro in mano si addormentò al suono della nostra voce fu per tutti un evento con il quale avremmo cercato di fare i conti per giorni e giorni a seguire. E quando manifestammo la nostra perplessità, dalla quale ci sforzavamo di togliere anche la più piccola traccia di percepita offesa personale, ce lo ripeterono sorridendo, contenti: far dormire una persona significa regalarle riposo e una magari breve, sicuramente temporanea tranqullità. Se li avete portati ad addormentarsi avete fatto un bel lavoro, siatene soddisfatti, ci dissero e ripeterono settimana dopo settimana. Non ci convincemmo mai del tutto, a dire la verità: ma solo per una questione di orgoglio, perché altrimenti, invece, sapevamo che avevano ragione.

    28/10/2021

    Mare mosso senza onde

    Filed under: — JE6 @ 09:53

    Un paio di giorni fa mi arriva una telefonata all’inizio del pomeriggio. E’ un cliente/fornitore/amico, uno di quegli ibridi che anni di lavoro creano quasi involontariamente e senza che uno se ne renda conto per davvero. Mi chiama per avvisarmi di un problema, che sembra essere piuttosto grosso. Fammi sapere, mi dice (e lo fa con il tono di chi è dalla tua parte, se posso ti do una mano: che è una cosa importante, ma è un’altra storia). Inizia una sarabanda di controlli, verifiche di tracciati, studi di soluzione, calcoli di penali. Poi uno di questi controlli fa pensare che forse l’errore non è stato fatto qui ma là, in Polonia, dove è partita la segnalazione: anzi, forse proprio non c’è un errore se non tanto piccolo da non poter essere nemmeno considerato tale. Richiamo il cliente/fornitore/amico: fai controllare questo e quest’altro, forse la mettiamo a posto, forse non c’è nemmeno nulla da mettere a posto. Passano un paio d’ore dove mi occupo di quel che stavo facendo prima della telefonata, poi squilla ancora il telefono: avevate ragione, tutto a posto, si erano sbagliati, a parte le quattro ore che abbiamo buttato via tutto è bene quel che finisce bene.

    Mentre torno a casa e sono fermo a un incrocio faccio un involontario bilancio della giornata e la sensazione di scampato pericolo mi sembra essersi bizzarramente trasformata in quella di soddisfazione, come se avessimo portato a casa un successo semplicemente lavorando come forsennati per riportare il segnaposto alla casella di partenza senza alcuna penalità. Mi viene da pensare a quante energie mettiamo, tutti senza eccezioni, solo per tenere in piedi la baracca – quella professionale, quella della vita privata, quella della vita sociale: manutenzione ordinaria. Quanto lavoro c’è, quanto impegno viene profuso per far andare avanti le cose lasciandole lì al loro posto. Quanto sono agitate le acque sotto la superficie piatta dello scampato pericolo.