I morti della marmotta
Ci sono nomi, e fatti, date, episodi, che hanno la prodigiosa e tremenda capacità non solo di riportare indietro il calendario ma anche di riportare tutti allo stadio zero dello sviluppo della propria capacità di tenere in considerazione l’ipotesi che ci stia sfuggendo qualcosa, che gli altri possano avere un briciolo di ragione, che le cose non siano definibili e giudicabili solo in base ai nostri pregiudizi. Piazza Fontana, l’assassinio di Moro e quello di Falcone, il G8, la morte di Stefano Cucchi. E si limitasse a questi, la lista. Un paio di volte all’anno c’è un anniversario o una sentenza di tribunale che fa riemergere, pavlovianamente, ciascuno nello stereotipo di se stesso, quello law-and-order e quell’altro che davanti a una divisa vede rosso, uniti dall’incoercibile bisogno di psicanalizzare per poi scrivere diagnosi e terapia consigliata su un qualche social network e dall’incosciente ostinazione nel giudicare il mondo a partire dall’approfondita conoscenza del proprio microcosmo, io perché ho il padre carabiniere e lui perché di manganellate se ne è prese eccome da giovane e l’altra perché il fidanzato di mia cugina mi ha detto che: non ci stanchiamo mai, prima di tutto di noi stessi e poi della generale inutilità delle nostre discussioni su questi temi, siamo forse disposti a cambiare opinione sul nuovo gusto del Philadelphia ma non certo sulla psicopatologia dei poliziotti, siamo forse inclini a chiedere consiglio su tipo e dimensione del bagaglio a mano utilizzabile con le low-cost ma la nostra ricetta su come Dare e Ottenere Giustizia è scolpita nella pietra per tutti i secoli dei secoli, e la prossima camera di consiglio è lì che ci aspetta per poterne dare prova.