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25/01/2019
E quindi nello stesso giorno abbiamo mandato Lino Banfi a rappresentarci all’Unesco e abbiamo sgomberato il CARA di Castelnuovo di Porto. Abbiamo, sì: perché il not in my name suona bene ma è una fesseria, vivere in democrazia comporta anche e a volte soprattutto questo, essere rappresentati da gente alla quale non affideresti nemmeno la cura del bottone che ti è staccato dalla camicia questa mattina (si chiama democrazia perché prevede la possibilità che tu in futuro ritenti e sia più fortunato: la speranza è l’ultima a morire, dicono).
Comunque.
All’inizio si è parlato quasi solo di Banfi. Vuoi perché ci han fatto una conferenza stampa ad hoc mentre di là i militari mandati a eseguire il compito mica hanno convocato Repubblica e Sky TG24, vuoi perché in generale ci troviamo meglio quando abbiamo a che fare con l’assurdo (o il ridicolo) che con l’orribile, sta di fatto che non c’era una chat WhatsApp di questo paese che non facesse girare un meme su di lui, Alvaro Vitali, Edwige Fenech e Giggino Di Maio.
Poi qualcuno si è dato una manata sulla fronte e ha detto “oh, ma che stiamo a perdere tempo con le cazzate, ma lo sapete che ci sono centinaia di persone deportate, famiglie separate, gente messa in strada”. Ed è stato come vedere un bicchiere, o un secchio, agitato nel senso opposto con la sua brava onda che se ne andava da una parte all’altra.
Poi siamo rimasti tutti un po’ lì tra il lusco e il brusco e il giorno dopo siamo passati ad altro, la copertina di Libero, l’elezione di Landini, il cartone di Celentano. A qualcuno è rimasto un mezzo pensiero penzolante, riattizzato dalla coda lunga dei meme e delle foto à la Tian’an Men, il pensiero che anche quando ci sforziamo non siamo più sicuri di riuscire a definire cosa è importante e cosa non, cosa è grave e cosa è solo ridicolo. Io, ad esempio, per quanto mi riguarda, e mettendo le mani avanti facendo la doverosa premessa che la cosa del CARA è spaventosa, delinquenziale e orribile, ho la sensazione che la nomina di Banfi sia più grave (o grave tanto quanto, ok) dello sgombero di Castelnuovo perché mostra come viene considerato e governato lo Stato da chi mi rappresenta. Mostra che dietro c’è tutto un pensiero terrificante di rifiuto dell’intelligenza, della capacità, della conoscenza e lo sgombero del CARA è figlio di quel pensiero, è effetto di una causa che oggi non prendiamo in considerazione perché ha la faccia ridicola di Banfi (e questo è l’errore, non prenderlo sul serio nel suo aspetto apparentemente innocuo e ridicolo, non prenderlo sul serio perché non fa ribrezzo e spavento). Però poi guardo i bambini separati dai genitori, gli uomini e le donne messi in strada volutamente senza un preavviso, leggo delle violazioni della legge da parte di chi la legge sarebbe tenuto a farla rispettare ma intanto deve obbedire alla sua autorità di riferimento e non sono più così sicuro, non sono sicuro di avere le idee abbastanza chiare non tanto da decidere da che parte stare, ché quella è la cosa più facile, ma come starci, che spesso è la cosa più difficile, perché è la più importante.
04/01/2019
Riguardo la foto, ingrandendola sullo schermo del telefono. Sono una decina, tutti poco meno che ventenni. Le loro famiglie sono venute dal Perù, dall’Ecuador, dalle Mauritius (“è un bellissimo posto, ma quello che vedete voi a noi è proibito; la gente come noi non può andare su quelle spiagge, lì ci stanno gli alberghi”), dallo Sri Lanka, e a risalire di un’altra generazione da isole vicine eppure lontane intere ere geologiche. Sono tutti nati qui, studiano altre lingue, a volte possono vedere paesi nei quali un tempo le loro famiglie sarebbero andate a cercare un lavoro, uno qualsiasi pur di riuscire a mangiare almeno una volta al giorno e dove oggi, magari costringendosi a mangiare una volta al giorno, cercano di mandare i loro figli semplicemente perché il mondo va visto.
Non riesco a capire cosa sta dietro quei sorrisi su una spiaggia a gennaio, che cosa pensano, che cosa sperano. A volte le immagini ti dicono solo di quell’istante preciso quando in testa non hai nulla, nulla che non sia il piacere primordiale di stare con gli amici. Riguardo la foto e mi torna in mente un pezzo di ormai tanti anni fa, loro che dicono sarebbe bello ridere di noi, di tutto il tempo rubato al nostro tempo a venire e io, noi, quelli come me, quelli della mia età, quelli che li hanno messi al mondo e gli stanno bruciando la terra sotto i piedi e davanti agli occhi che ci guardiamo in faccia dicendo non è la fatica, è lo spreco che mi fa imbestialire, non è la fatica, è lo spreco.
27/06/2018
Ogni tanto capita di leggere dei libri scritti in un passato più o meno remoto ma certo non prossimo e di dire “che roba, che modernità, sembra scritto oggi”. Sono quei libri che sembrano raccontare esattamente quello che vediamo con i nostri occhi e sentiamo con i nostri stomaci qui e ora: il “Dialogo tra Ateniesi e Melii” di Tucidide, “Furore” di Steinbeck, giusto per dirne un paio. Prendi questa, ad esempio:
La nostra proposta è che si faccia quanto è realmente possibile sulla base dei veri intendimenti di entrambi: consapevoli gli uni e gli altri del fatto che la valutazione fondata sul diritto si pratica, nel ragionare umano, solo quando si è su di una base di parità, mentre, se vi è disparità di forze, i più forti esigono quanto è possibile; ed i più deboli approvano.
Mica male, eh? Ti viene subito da dire “questo è Trump, quello è Putin, quegli altri sono i messicani e i ceceni”, o qualcosa di simile.
Oppure quest’altra, un po’ più lunga:
Ed ecco che nel West subentra il panico, ora che i nomadi vanno moltiplicandosi per le strade. I ricchi sono terrorizzati dalla loro miseria. Individui che non avevano mai provato la fame, ora vedono gli occhi degli affamati. Individui che non avevano mai provato desideri intensi per qualche cosa, vedono ora l’ardente brama che divampa negli occhi dei profughi. Ed ecco gli abitanti delle città e della pigra campagna suburbana organizzarsi a difesa, dinanzi all’imperioso bisogno di rassicurare sé stessi di essere loro i buoni e i cattivi gli invasori, come è buona regola che l’uomo pensi e faccia prima della lotta. Dicono: vedi come sono sudici, ignoranti, questi maledetti Okies. Pervertiti, maniaci sessuali. Ladri tutti dal primo all’ultimo. E’ gente che ruba per istinto, perché non ha il senso della proprietà. Ed è giustificata, se vogliamo, quest’ultima accusa; perché come potrebbe, chi nulla possiede, avere la coscienza angosciosa del possesso? E dicono: vedi come son lerci, questi maledetti Okies; ci appestano tutto il paese. Nelle nostre scuole non ce li vogliamo, perdio. Sono degli stranieri. Ti piacerebbe veder tua sorella parlare con uno di questi pezzenti? E così le popolazioni locali si foggiano un carattere improntato a sentimenti di barbarie. Formano squadre e centurie, e le armano di clave, di gas, di fucili. Il paese è nostro. Guai, se lasciamo questi maledetti Okies prenderci la mano. E gli uomini che vengono armati non sono proprietari, ma si persuadono di esserlo; gli impiegatucci che maneggiano le armi non possiedono nulla, e i piccoli commercianti che brandiscono le clave possiedono solo debiti. Ma il debito è pur qualche cosa, l’impiego è pur qualche cosa. L’impiegatuccio pensa: io guadagno quindici dollari la settimana; mettiamo che un maledetto Okie si contenti di dodici, cosa succede? E il piccolo commerciante pensa: come faccio a sostenere la concorrenza di chi non ha debiti? E i nomadi defluiscono lungo le strade, e la loro indigenza e la loro fame sono visibili nei loro occhi. Non hanno sistema, non ragionano. Dove c’è lavoro per uno, accorrono in cento. Se quell’uno guadagna trenta cents, io mi contento di venticinque. Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti. No, prendete me, io ho fame, posso farlo per quindici. Io ho bambini, ho i bambini che han fame! io lavoro per niente; per il solo mantenimento. Li vedeste, i miei bambini! Pustole in tutto il corpo, deboli che non stanno in piedi. Mi lasciate portar via un po’ di frutta, di quella a terra, abbattuta dal vento, e mi date un po’ di carne per fare il brodo ai miei bambini, e io non chiedo altro. E questo, per taluno, è un bene, perché fa calar le paghe mantenendo invariati i prezzi. I grandi proprietari giubilano, e fanno stampare altre migliaia di prospettini di propaganda per attirare altre ondate di straccioni. E le paghe continuano a calare, e i prezzi restano invariati. Così tra poco riavremo finalmente la schiavitù. E le strade sono affollate di gente avida di lavoro, ma avida al punto da esser disposta ad assassinare pur di trovarne. E le banche e le società si scavano la fossa con le proprie mani, ma non lo sanno. I campi sono fecondi, e sulle strade circola l’umanità affamata. I granai sono pieni, e i bimbi dei poveri crescono rachitici e pieni di pustole. Le grandi società non sanno che la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello. E il denaro che potrebbe andare in salari va in gas, in esplosivi, in fucili, in spie, in polizie e in liste nere. Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro, e in seno ad essa serpeggia il furore, e fermenta.
Il vecchio John, che descrive alla perfezione Gorino e Ventimiglia e Lesbos e McAllen, certo che era bravo.
Eppure. Eppure questi non avevano la sfera di cristallo. Questi due non parlavano di noi, raccontavano ciò a cui stavano in mezzo, uno duemilacinquecento anni fa, l’altro ottanta – che sono meno, ma sono tanti lo stesso. Non erano loro a essere moderni, siamo noi a essere tristemente, tragicamente antichi, noi e la nostra idea lineare di progresso, noi che pensiamo di essere meglio, nel nostro nocciolo, di quei trogloditi che ci hanno preceduto.
04/03/2018
C’era tanta gente oggi ai seggi, almeno quella mezza dozzina che ho visto io. E’ bello, ho pensato, è bello che nonostante tutto – o forse proprio a causa di questo tutto – siano ancora in tanti a pensare che votare sia una cosa utile e importante. Poi ho realizzato che di cinque persone che vedevo quattro votavano – beh ci siamo capiti. E’ che non si può avere proprio tutto dalla vita.
24/11/2017
C’è una cosa che mi capita spesso di pensare alla fine di certi libri – “La guerra del Peloponneso” di Tucidide, “Furore” di Steinbeck, cose così: mi capita di pensare che li leggiamo e la prima reazione che abbiamo è “guarda che modernità, sembra scritto adesso, questi ateniesi sembrano gli americani e questi Joad sembrano i migranti siriani”; ma il fatto è che non sono loro – Tucidide, Steinbeck, i loro libri – a essere moderni, siamo noi a essere rimasti fermi. Se dopo un secolo o due millenni e mezzo parliamo e pensiamo e agiamo ancora come quei contadini dell’Oklahoma (e i bravi cittadini californiani che gli danno fuoco alle baracche) o come quegli ambasciatori ateniesi nell’isola di Melo, siamo noi a essere “vecchi”. E la nostra idea di progresso, di una linea non necessariamente retta ma comunque continua che ci porta da A a B dove B è un posto migliore, che sta più in alto, dal quale si gode di una vista più bella. E invece spesso no, spesso siamo tali e quali ai nostri trisnonni, nel nostro nocciolo siamo come loro, passati dalla penna d’oca allo smartphone con scrittura vocale, gli inconsapevoli protagonisti di uno sfinente e gigantesco giorno della marmotta.
03/01/2017
Che poi lo sappiamo tutti che l’anno nuovo inizia a settembre, o magari a fine agosto quando ritorni in ufficio o rialzi la serranda (se hai ancora un lavoro, si intende). Perché tra Santo Stefano e Capodanno hai ancora tanto da fare, le fatture da emettere, le commesse da chiudere, i programmi da ritoccare – programmi che non riguardano un futuro lontano e indistinto, sono programmi per la prossima settimana, quando ti rimetterai sotto mentre starai ancora smaltendo gli ultimi bicchieri di brut millesimato. Capodanno è un venerdì sera sotto steroidi; adesso servono un paio di pastiglie per far passare il mal di testa: e in fretta, ché domani ricominciano le interrogazioni.
02/12/2016
Non so voi: io per un po’ ho creduto che la gente (cioè quel microcosmo del quale faccio parte composto da amici, colleghi, conoscenti, vicini di casa, persone che ascolto mentre parlano in metropolitana: quella storia dei sei gradi di separazione, per intenderci) avrebbe provato ad arrivare a domenica prossima in modo, non so: ragionato? Ecco, forse il termine è quello: ragionato. Per un po’ ci ho creduto, mi è anche capitato di partecipare a incontri pubblici dove veramente la sensazione era quella, quella che si potesse ascoltare, fare domande, ricevere risposte, ragionare e poi scegliere. Per un po’; poi mi sono svegliato, e ho ritrovato la gente (cioè quel microcosmo del quale faccio parte) che iniziava un discorso anche sinceramente ben disposta per poi, in soli cinque minuti e senza passare dal via, proseguire per pura tigna, nascondendo soprattutto a se stessa le mille inevitabili magagne della propria posizione. Tenere il punto, ecco cosa conta. Tenere il punto fino alla fine. Forse è così che si vince, spesso è così che si vince. Cosa, non so.
15/09/2016
Non so se siete mai stati a Lainate. Quella della Lainate-Como-Chiasso, se non siete della zona ma ascoltate le informazioni sul traffico alla radio. E’ un normale paese dell’hinterland milanese, fatto di villette, condomini, rotonde, una magnifica villa con giardini e fontane, pizzerie e kebabbari. L’ho attraversato cento volte, mi ci sono fermato qualcuna di meno. La prossima volta che capiterò da quelle parti, che da casa mia sono veramente pochi chilometri, farò questo esercizio: pensarlo come una prigione. Mura alte, sbarre alle finestre, secondini, ore d’aria, quelle cose lì che sappiamo tutti per averle viste nei film (poi invece, se una volta nella vita ti capita di entrarci per davvero in un carcere, ti rendi conto che non sapevi proprio nulla; ma questo è, in parte, un altro discorso. O forse no). A Lainate vivono venticinquemila persone, per la precisione 25.708 secondo l’Istat. Sono solo poche centinaia in più di quelle che negli ultimi venticinque anni sono state riconosciute dalla magistratura come vittime di ingiusta detenzione e per questo hanno ricevuto un risarcimento che nel suo insieme arriva a seicentotrenta milioni di Euro. Mi basta questo numero. Non quello dei soldi; quelli, come dice mia mamma, vanno e vengono. No, quello delle persone. Le persone che lo Stato ha mandato in prigione da innocenti, per rendersene conto solo molto tempo dopo e chiedere scusa staccando un assegno. Mille all’anno. E per ogni persona una famiglia più o meno allargata, degli amici, un lavoro. Da qualunque parte la guardi, è un’enormità. Ed è nel momento stesso che realizzo questa enormità che realizzo anche quante volte sono stato attraversato dal pensiero che se non hai niente da nascondere non hai nulla di cui preoccuparti (e preferisco non pensare a quante volte l’ho anche detto, ché c’è un limite all’autoflagellazione). Non è vero. Ma un pezzo dello schifo che abbiamo fatto diventare la nostra vita sociale – e no, non parlo dell’happy hour all’Isola – nasce proprio da qui, dalla manettizzazione del nostro pensiero di gente che si commuove guardando Il miglio verde e suona le trombe per ogni avviso di garanzia. Forse sì, forse quello là sopra non è un altro discorso, forse ognuno di noi dovrebbe avere il diritto a un quarto d’ora di celebrità e il dovere di mezza giornata a San Vittore.
26/08/2016
Se prendi un informatico serio (ma se non ce l’hai sottomano basta anche Wikipedia) questo ti spiega che real time non significa quello che ormai siamo abituati a pensare, ti dice che un sistema real time è qualcosa che esegue un certo compito, e quindi raggiunge un determinato obiettivo, nel tempo prestabilito: che può essere anche lungo, anche molto lungo; ma, prima di tutto, preciso: nessun ritardo, nessun anticipo.
Ma il mondo non è fatto né regolato dagli informatici seri. E così è successo che a un certo punto abbiamo preso a dire real time usandolo come sinonimo di “immediatamente”, “ora”, “adesso, proprio mentre parlo/scrivo/guardo”. Quando e soprattutto perché questo sia successo io non lo so. C’ero sicuramente, ma non me ne sono accorto: dormivo, o quanto meno sonnecchiavo, insomma. E così oggi per me, come per chiunque io conosco, il tempo reale è quella cosa lì. E’ adesso. E se il tempo reale è adesso, ciò che non è adesso non è reale. Se la scossa arriva alle 6.28 io devo dire qualcosa alle 6.29 al massimo: non perché abbia un obbligo contrattuale, non siedo a un desk né mi chiamo Serra o Gramellini o Barenghi (che poi questi arrivano il giorno dopo, un po’ come Sky con i canali +1); no, semplicemente perché ormai penso che, appunto, la vita è adesso. Ogni tanto si sente qualcuno dire “beh, ma che fine ha fatto X”, dove X è una persona, un fatto – Ryan Lochte, lo scontro dei treni in Puglia – che per un giorno, forse due è stato tutto, è stato il tempo, e poi puf: e la risposta è che non lo sappiamo la fine che ha fatto, perché da quel giorno sotto i ponti è passato un sacco di tempo reale, e ormai il tempo di X non è più adesso. E’ altro, e irreale.
20/07/2016
Questo blog era aperto da meno di sei mesi quando cadde il secondo anniversario dei fatti di Genova. Il G8, Bolzaneto, la Diaz, Carlo Giuliani. Scrissi una cosa che, nell’infinitamente piccolo e vano di quel che ho buttato qui dentro, è quella che in tanti anni più mi è costata fatica. Oggi inevitabilmente ho letto delle cose su quei giorni, ho riletto pure le mie righe sgangherate, e ho avuto la sensazione che di passi (avanti, indietro, anche di lato) ne siano stati fatti pochini. Siamo ancora lì, quasi tutti a ripetere quasi tutte le stesse cose che dicevamo e scrivevamo quindici e tredici e dieci e cinque anni fa. Se non fosse da prendersene paura, ci sarebbe da provare noia in primis per noi stessi: ma forse anche un lunghissimo giorno della marmotta, alla lunga, può servire a qualcosa.
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