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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    13/11/2011

    Shadows in the rain

    Filed under: — JE6 @ 16:57

    Non ricordo di essere mai stato così stanco. Negli ultimi due giorni, da quando siamo partiti da Milano abbiamo dormito forse tre ore, e sempre sui pavimenti di vagoni di seconda classe. Oggi ci mancava solo questo, prendere l’ultimo treno della sera, apprendere con sgomento che non arriva al porto ma si ferma in città e realizzare che questo significa farsi qualche altro chilometro a piedi, e sempre con lo zaino in spalla, se vogliamo prendere il traghetto per Dover.
    Scendiamo dal treno. Siamo un gruppo che neanche nelle barzellette, noi due e due inglesi e due tedeschi, nessuno che sappia più di un paio di parole di francese. Fermiamo un poliziotto, a gesti gli chiediamo come si arriva al porto, a gesti lui ce lo spiega e noi facciamo finta di capire. Iniziamo a camminare, fa freddo e tira vento. Stiamo in fila indiana, noi due per ultimi. Mi sento addosso una tristezza che non dovrei avere, vorrei tornare a casa, vorrei sedermi qui, sul ciglio di uno di questi sentieri sabbiosi nei quali stiamo affondando i piedi. Cade qualche goccia d’acqua. I tedeschi non mollano, vanno avanti sicuri, come panzer, come la loro nazionale di calcio, un passo dopo l’altro, un passo dopo l’altro senza dire una parola. Gli inglesi seguono, ogni tanto ridono come fanno quelli che hanno due o tre birre nello stomaco. E poi ci siamo noi. Adesso piove davvero, ci fermiamo per tirare fuori dagli zaini le cerate, e cercandole dobbiamo spostare tutto – la tenda, le scarpe, le pentole, la canna da pesca, diocristo ti sei portato davvero la canna da pesca, i maglioni. Ripartiamo, ho le lenti degli occhiali ormai completamente bagnate, come un parabrezza senza tergicristalli, sento Paolo fischiettare per farsi compagnia, per far passare il tempo che invece non passa mai. Senza accorgermi entro dritto in una pozza di acqua e fango e petrolio e dio sa cos’altro ancora, d’altra parte siamo nei docks di un porto industriale, scivolo, barcollo, allargo le braccia per tenermi in equilibrio, sento che i venti chili che ho sulle spalle stanno per portarmi a faccia in giù, sembro una marionetta a cui abbiano tagliato i fili, e proprio mentre sto per cadere rovinosamente Paolo mi abbranca lo zaino, mi tiene, socio mi sembri un po’ stanco mi dice e io senza un motivo al mondo lo mando affanculo, lui che non c’entra niente. Riprendiamo a camminare in silenzio, i tedeschi e gli inglesi si sono allontanati, hanno un centinaio di metri di vantaggio, li vediamo là avanti, ombre nella pioggia di una notte del cazzo. Paolo mi si affianca e senza guardarmi dice la pioggia è bellissima, quando si gioca a calcio e diluvia è una roba fantastica, sei fradicio e non ci pensi, ti butti nel fango e ti sembra di stare in paradiso e io senza guardarlo mormoro è vero, e mi viene da ridere, e poi rido, rido e non mi fermo più, anzi mi tolgo gli occhiali e il cappuccio della cerata e cammino prendendomi tutta l’acqua del mondo che adesso arriva di traverso, mi entra negli occhi e nelle orecchie, e rido rido rido, poi dico a Paolo dai, riprendiamo i crucchi altrimenti qui ci ritrovano domani mattina e col cazzo che ci arriviamo a Dover e allungo il passo, e lui ride e dice coglione aspettami, ti salvo e mi ringrazi così.