Quando scoppiavano le bombe
Quando scoppiavano le bombe, noi c’eravamo. Ce lo ricordiamo, e pure abbastanza bene. Ci ricordiamo dov’eravamo quando abbiamo saputo la notizia, lo sgomento dei nostri genitori che provavano al tempo stesso a spiegarci le cose e a proteggerci dalla nozione del male insensato, e alcuni di noi ricordano pure la sensazione delle gocce di angoscia che si accumulavano, una per ogni minuto di ritardo, quando qualcuno non rientrava a casa in un’epoca senza cellulari. Scoppiarono per un sacco di tempo, le bombe. E per un tempo persino più lungo spararono le pistole e i mitra. C’eravamo, lo sappiamo. Ne siamo venuti fuori, e sarà bene ricordarcela, questa cosa che ci siamo riusciti, perché se ce l’abbiamo fatta una volta ce la possiamo fare una seconda, e una terza. Sarà anche bene non raccontarci la favola che ce l’abbiamo fatta continuando a vivere come prima, perché non è vero. Siamo stati costretti a cambiare, a sottoporci a limiti, privazioni e violenze legali delle quali avremmo volentieri fatto a meno, perché è stato necessario. Se ti viene la febbre, se qualcuno ti attacca un virus, prendi gli antibiotici: che è una cosa che altrimenti non faresti, e invece. E se la malattia è qualcosa di più grave, ti aggiusti di conseguenza: come chi si inietta l’insulina ogni giorno, come chi fa la dialisi due volte alla settimana per tutta la vita, perché quello ti tocca, a mali estremi eccetera. E con certe malattie ti rendi conto che non guarisci, ti rendi conto che per combatterle devi cambiare per quanto questo ti sembri ingiusto, cambiare fino al punto che ti metti davanti allo specchio e fai fatica a riconoscerti perché hai perso i capelli o sei gonfio di cortisone. E’ stato così anche con le bombe, quando scoppiavano, e noi che c’eravamo lo sappiamo, ce lo ricordiamo. Anche se non vogliamo ricordarcelo.