Orario estivo
Abbiamo fatto dieci, undici mesi, sempre seguendo lo stesso orario. O comunque avendolo ben presente, se facciamo una vita che non ci lega al minuto preciso. Sappiamo quando inizia la vera ora di punta, quando dalle scale scendono stormi di studenti, quando gli incroci delle circonvallazioni diventano degli uncini incastrati senza speranza. Sappiamo com’è la luce quando usciamo di casa, chi esce dal bar dove ci fermiamo per il secondo caffè, dove iniziano le code dei consolati e degli uffici pubblici. Sappiamo tutto, è una cosa che odiamo e della quale non possiamo fare a meno.
Poi arriva l’estate. E gli orari del mondo non combaciano più con i nostri: meno treni, meno macchine, gente in vacanza, ritmi appena più rallentati – sarà il caldo, sarà la stanchezza, sarà qualcosa che non sappiamo ben definire – e tutto va fuori sincrono. Non dura molto, l’orario estivo: il tempo di rendersi conto che è cambiato qualcosa, poi il tempo di provare ad adattarsi, poi le due settimane di ferie e poi si riprende nella confusa spossatezza del rientro, quando all’orario estivo della città non facciamo più caso perché il nostro fuso orario è ancora indietro di qualche giorno. Però, fino a quando c’è, ce lo godiamo. Non fino in fondo, perché da qualche parte ci portiamo in giro un grumo di fastidio per le abitudini interrotte e una specie di inspiegabile senso di colpa, ma anche con la soddisfazione del “ce lo siamo meritati, dopo un anno di lavoro”, e arriviamo in ufficio o all’appuntamento con il cliente con qualche minuto di ritardo, e sorridiamo contando sulla comprensione altrui, “eh, l’orario estivo”.