Mustafa e mia mamma
Ero ancora minorenne, mi racconta Mustafa mentre attraversiamo Sarajevo, quando sono entrato nell’esercito e così ho continuato a studiare durante la guerra, mi sono diplomato e nel 1993 ho iniziato la facoltà di odontoiatria. Gli chiedo come facevano a studiare, dove andavano a lezione e mi spiega che erano scuole di fortuna, organizzate nelle cantine e in quei pochi posti che venivano ritenuti più o meno al sicuro dai bombardamenti. Andavo a lezione ogni volta che ero libero dagli impegni della mia unità, mi dice; e lo fa senza calcare una sola parola, come se fosse naturale, hai vent’anni, stai combattendo una guerra contro quelli che erano i tuoi vicini di casa e compagni di scuola e amici del cortile e se hai mezza giornata libera vai a studiare e la cosa non ti pesa, è proprio quello che vuoi: lo dice così, e non so se essere più ammirato dall’azione in sé o dalla mancanza di enfasi del racconto.
Quell’azione mi sembrerà di poterla capire davvero, di sentirla reale e, in qualche inspiegabile modo, viva qualche mese dopo grazie a mia mamma, la donna che mi ha insegnato a leggere e della quale il primo ricordo che ho è di lei che mi sta vicina, chinata sulla mia spalla destra che mi osserva mentre io, che di lì a non molto inizierò le elementari, sono immerso nelle pagine di Topolino e provo a mettere una lettera dopo l’altra a formare parole e frasi. Quella sera, mentre sono sul pianerottolo aspettando l’ascensore dopo averle fatto visita, mi racconterà che un’oretta prima il sacerdote durante l’omelia aveva invitato anche gli anziani come lei a onorare il padre e la madre con l’unico strumento che gli restava alla loro età: il ricordo e l’affetto, l’amore che questo si portava dentro. “Sai cos’è la prima cosa che mi è tornata in mente?” mi dice, e senza attendere il “no, dimmi” di cortesia va avanti, “hanno fatto tanti sacrifici, proprio tanti, i tempi erano quelli che erano” e scuote appena le spalle come si fa quando non ci si può che limitare a prendere atto di ciò che è stato e di ciò di cui ci si è fatta una ragione, “ma non ci hanno mai fatto perdere un giorno di scuola. Mai, la scuola era sacra.” e intanto arriva l’ascensore e con il pollice spingo quel che basta a socchiuderne la porta e tenerlo occupato e dare modo a lei di finire la frase e a me di vedere i miei nonni, nonna Marianna nel suo lutto eterno e nonno Antonio nel suo fustagno nuragico, imporre a se stessi la rinuncia all’aiuto che i tre figli, due femmine e un maschio, avrebbero potuto dar loro nei campi in nome della scuola, dell’idea stessa di scuola, loro che di don Milani non avrebbero mai sentito parlare e che di quel prete borghese e rivoluzionario condividevano senza saperlo e senza saperlo esprimere la convinzione nucleare che i bambini dovessero studiare per quanto possibile e anche di più, che i libri e i quaderni e un maestro fossero ricchezze che valevano più del raccolto delle olive. In quei pochi secondi durante i quali mia mamma inizia e finisce il suo racconto vedo lei da bambina e vedo lei da ottantenne che non riesce a non fermarsi davanti a una bancarella o a uno scaffale di libri, non importa quali, “sarà che da ragazzina mi sono mancati così tanto”, e vedo Mustafa che appoggia la sua arma da qualche parte e si siede su uno sgabello traballante mentre fuori cadono le granate serbe o magari c’è una mezza giornata di pausa dei combattimenti e si gode le sue lezioni di odontoiatria, se le gode come quando svieni dalla fame e anche un pezzo di pane secco sembra un pranzo stellato Michelin e mi pare, in quel momento, di avvicinarmi a capire un ragazzo bosniaco grazie a un’anziana donna sarda, e dovrei lasciare la porta dell’ascensore, liberarlo e andare a dare una carezza a quella donna ma non siamo tanto i tipi, non lo siamo mai stati nel bene e nel male e le dico “sì, è un bel ricordo, e i nonni sono stati bravi, soprattutto con voi femmine” e la saluto, e vado, e ripenso a Mustafa.