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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    25/06/2017

    Pausa pranzo

    Filed under: — JE6 @ 18:11

    Qualche sera fa mi sono guardato su YouTube uno speech che Vittorio Munari ha tenuto a una convention aziendale. Munari è stato un grande allenatore di rugby e oltre a fare il commentatore televisivo rimpingua il conto in banca girando per aziende a spiegare cos’è una squadra, come ci si sta dentro, cosa significa vincere e cosa vuol dire perdere, cose così. Uno dei perni dei suoi discorsi è l’automotivazione: la spinta che uno ha dentro per dare il massimo di sé e dare il massimo che può agli altri. Tutto bello e tutto giusto, se non fosse che non ti spiega dove dovresti fissare la tua asticella, quale dovrebbe essere il tuo punto di equilibrio, ché non è facile dare il famoso centodiecipercento e poi avere ancora tempo e energie e testa per ciò che sta fuori dalle mura dell’ufficio; e se quell’asticella sbagli a metterla, se quel punto di equilibrio è invece sbilanciato hai voglia a riempirti la testa di belle teorie e messaggi motivazionali, intanto sei solo diventato un altro soldatino dell’immenso esercito dei burnt-out. E niente, pensavo a quel discorso che Munari faceva a venditori e amministrativi e capiarea e direttori di business unit, ci pensavo mentre all’una e mezza di un giovedì pomeriggio percorrevo la via che a Pesaro taglia il centro storico passando per chiese e musei e piazze in attesa di presentarmi al secondo appuntamento della giornata, e guardandomi intorno, riconoscendo posti che ormai conosco come un indigeno – la via che porta alla sinagoga, le centinaia di piccole fotografie in bianco e nero del monumento ai caduti, il palazzo delle poste, il piccolo arco che porta a un panettiere e un macellaio – non riuscivo a togliermi di dosso il sorpreso e malcelato fastidio del trovare nove negozi su dieci chiusi per la pausa pranzo, ci pensavo cercando di capire se è il problema del vivere e lavorare a Milano, se sono io, se siamo noi, se sono loro, ci pensavo e mi veniva da dire beh Vittorio, mi stai simpatico e sono contento se ti pagano bene per non dire niente che non mi avessero già spiegato i miei genitori quando avevo dodici anni, ma le cose sono più complicate di così, lo so io e lo sai tu, e chissà, forse trovare il modo per restare in superficie, per girare intorno a un ostacolo senza scavalcarlo, per far credere di aver dato una risposta a una domanda che tutti si fanno senza riuscire a darsi una soluzione, forse trovare quel modo è quello che serve. O forse no, ma non sono io quello che fa gli speech alle convention, qualunque cosa questo voglia dire una volta tradotto in italiano.

    17/11/2011

    “Se dovete fare una scelta ascoltate, non applaudite”

    Filed under: — JE6 @ 15:08

    Ho appena finito di ascoltare Mario Monti che illustrava ai senatori le cosiddette linee programmatiche del suo governo. Mi sono piaciute molte cose e piaciute meno altre, ma nel tempo ho imparato che non si può aver tutto dalla vita, e quando hai abbastanza è già molto, molto meglio di niente. Comunque. Mario Monti è il presidente della Bocconi, e in questi giorni – soprattutto quando i nomi dei futuri ministri erano classificati alla voce “si dice -indiscrezioni” – si è fatta tanta ironia su questa università e sulle sue persone. Non sono mai stato animato da un particolare spirito di corpo, non venero l’Alma Mater come gli ex studenti di Harvard e di Stanford, non ho mai partecipato alle riunioni e alle iniziative degli alumni. Non mi ritengo sospettabile di pregiudizio positivo, insomma. Ma poco fa, seguendo l’andamento lento delle parole del nuovo PresDelCons, l’uomo che dice “se dovete fare una scelta ascoltate, non applaudite”, mi sono sentito a casa, un po’ come cittadino e un po’ – va bene, sparate pure – come bocconiano. L’anno scorso ho scritto questa cosa che riporto qui sotto, e che oggi ripesco. Poi, che io oggi (almeno per i prossimi venticinque minuti) mi senta orgoglioso e rasserenato e vaghissimamente fiducioso non lo considero un buon segno, ma un segno dei tempi – che sono quelli che sono: grami. Ma questo è un altro discorso.

    Era un giorno dell’autunno del 1985, quando entrai per davvero in Bocconi per la prima volta. Ci ero stato qualche tempo prima per il test di ammissione, ma quel giorno non contava, nessuno di noi aveva tempo e voglia di guardarsi intorno e di illudersi o deprimersi all’idea che superando quell’esame avremmo passato i successivi quattro o cinque o sei anni fra quelle mura. Ma il primo giorno vero, ecco. Non avevo ancora diciannove anni, venivo da un quartiere di periferia sconosciuto alla maggior parte dei milanesi (e la minor parte che lo conosceva lo considerava un dormitorio), non avevo fatto il liceo ma un normalissimo e plebeissimo istituto tecnico commerciale. Ricordo perfettamente che mi fermai di fronte all’entrata dell’università e pensai: “Oddio”. Sono sempre stato abbastanza bravo a mascherare la paura dei posti e delle persone nuove, e a fingere di non sentirmi inadeguato e fuori posto: così mi feci forza ed entrai come se niente fosse. Non ci sarebbero state cerimonie di iniziazione, atti di nonnismo e mortificazioni da scuola vittoriana, questo lo sapevo. Ma erano gli anni della Milano da bere, e non bastava la macchietta disegnata – male – da Sergio Vastano negli sketch di Drive In a prendere sufficientemente in giro quella terrificante armata di non ancora ventenni vestiti come i funzionari di Publitalia – blazer blu con bottoni dorati, pantaloni grigi e scarpe di cuoio inglese, la ventiquattrore rigida e una copia del Sole24Ore sotto l’ascella. Non ci volle moltissimo a rendermi conto che nel tempio dell’educazione capitalista italiana c’era un sacco di gente del tutto “normale”, gente che votava a sinistra – professori e studenti senza distinzione -, gente che usciva a fare due passi per mangiare un panino e tirare due colpi di cinque birilli nella Cooperativa Stella Alpina, gente con famiglie monoreddito, gente che potevi trovare da Buscemi a cercare qualcosa dei Clash. Non ci volle nemmeno moltissimo a rendersi conto che il censo fa differenza, talvolta per educazione, sempre per usi e costumi; lo sforzo più grande di quel primo anno fu non farsi travolgere né dai nomi altisonanti che potevi incontrare in biblioteca o al corso di sociologia di Nando dalla Chiesa né dal desiderio di assimilazione né dall’orgoglio proletario – e se ci riuscii, se ci riuscimmo tutti (o quasi) non fu tanto per merito nostro di giovani pivelli saltabeccanti tra la teoria della concorrenza perfetta e il calcolo degli integrali, bensì per merito di un sistema che ci trattava da pari, o almeno ce lo faceva credere. Avremmo avuto poi tutto il tempo del mondo – il resto della vita – per capire che le conoscenze contano quanto le capacità, che le barriere invisibili sono molto più difficili da superare di quelle ben indicate, e che l’erba del vicino – la vita degli altri, insomma – sembra sempre drammaticamente più verde e brillante: intanto potevamo tentare un tre sponde col taglio a tenere, e tornare a casa in metropolitana senza sentirci né degli eletti né dei paria, e oggi questo non mi sembra poco.

    18/10/2011

    Un barbaro, tipo

    Filed under: — JE6 @ 18:50

    Da qualche tempo, per motivi di lavoro mi sono rimesso a studiare. Studiare proprio, non quel generico “tenersi informati sulle ultime novità”, l’aggiornamento via Google Reader che facciamo passare come formazione professionale. Studio, una cosa fatta di libri*, appunti, schemini, ripassi mentali, collegamenti, esposizioni. E niente, la fatica che ho fatto e che sto facendo mi ha fatto tornare in mente un po’ di pagine di Baricco, quelle sulla mutazione genetica che ci ha portati – un po’ tutti – a preferire il sapere un po’ (poco) di molte cose restando sempre in superficie al sapere molto di poche cose scavando nella loro profondità, e ancora non ho capito se questo è un bene oppure no, o se semplicemente le cose vanno così e se ne prende atto, e amen.

    *Oddio, sì. Pare impossibile, vero? E invece tu pensa, su Internet non si trova proprio tutto tutto tutto.

    07/10/2011

    Questa è acqua (de gustibus eccetera)

    Filed under: — JE6 @ 14:35

    No, non è una gara. Ma cosa vuoi, tra David Foster Wallace che parla ai laureati del Kenyon College e Steve Jobs che lo fa a quelli di Stanford io prendo tutta la vita il primo.

    Outspoken, L’Espresso

    03/08/2011

    Confessioni

    Filed under: — JE6 @ 15:55

    Allora?
    Cosa.
    Su, forza.
    Va bene, va bene.
    Allora?
    E’ bello.
    Davvero?
    Sì. Molto.
    Posso dire “te l’avevo detto”?
    Direi di sì.
    Un sacco di volte.
    Già. Una cinquantina, almeno.
    Anche di più.
    Sessanta.
    Eh.
    Eh.
    Dai, non voglio infierire. Qual è la cosa che ti piace di più?
    Beh, non saprei, ce ne sono tante.
    Eddai, una. La prima, ce ne sarà una sopra tutte, no?
    Sì.
    Dai, dimmela.
    La sigla.
    Cretino.
    Scusa. Ma guarda che è bella davvero, eh. Comunque, non so, alla fine mi piace un po’ tutto.
    Sì, capisco. Lo so.
    E’ che dura poco, e quindi sono già lì che penso.
    Cosa.
    What’s next?
    Hahahahahaha.
    Vabeh.
    Cosa.
    Niente. Senti.
    Dimmi.
    Grazie.
    Prego, scemo.

    25/02/2011

    Una scolara pigra

    Filed under: — JE6 @ 10:46

    Il problema non era che ogni giornata fosse dura, aspra, senza pietà. Se fosse stato solo questo, non sarebbe stato troppo complicato. La cosa tremenda era che tutto avrebbe potuto essere più semplice, eppure le cose non andavano così (…) La vita è come una scolara pigra, che in pagella si merita un “brava, ma non si applica”.
    Tibor Fischer, “Adoro essere uccisa”

    23/11/2010

    “Non lo so”

    Filed under: — JE6 @ 08:20

    C’è questo libro, che magari qualcuno di voi qui ha letto. E’ un ebook, uno di quegli esperimenti che a usare i paroloni si chiamano di scrittura collettiva, e in italiano – quello che parliamo più o meno tutti – passa come una raccolta di pezzi scritti da tante persone diverse (e la diversa definizione non lo rende meno nobile). Parla di Resistenza, di resistenze. Ne vengono fatti anche dei reading, cioè quelle cose che in italiano si chiamano letture pubbliche – io non so se chi ascolta sia persona diversa da chi ha scritto, ero presente la prima volta, ho sentito leggere un mio pezzo, mi sono un po’ emozionato, c’erano degli amici, poi è finita lì ma non è di questo che mi interessa parlare. E’ che qualche ora fa, entrando in ascensore, leggevo una cosa che diceva “ogni tanto spero che scoppi un casino serio, uno di quelli coi carrarmati per strada. mica per altro, eh… sono solo curioso di vedervi in piazza, a fare la resistenza. con i vostri cazzo di iPad” e mi chiedevo se noi, quelli che han scritto per il libro, quelli che vanno a fare i reading, quelli che postano le foto, mi chiedevo se noi la resistenza, una resistenza qualsiasi (e la maiuscola vedete voi se metterla o meno) saremmo capaci di farla. Ho chiesto a un amico, a quello che è il motore dell’ebook e di tutto il resto, gli ho chiesto cosa ne pensava e lui mi ha risposto “non ce l’ho una risposta. Però, ecco, se l’avessi chiesto a mio nonno nel ’35, ma anche forse nel ’42, boh, forse avrebbe risposto anche non lo so”; io ho letto quella frase, e l’ho riletta, e non so perché – o forse sì: lo so molto bene – l’ho trovata venata di un certo scettico, ammirevole ottimismo.

    01/11/2010

    Appena smette di piovere

    Filed under: — JE6 @ 16:20

    Là fuori è pieno di gente che non ama andare al cimitero. Lo scansa, lo rifugge, lo rimuove.
    Lo capisco. Li capisco.
    Poi c’è gente come me, che i cimiteri li va a cercare.
    L’anno scorso ho scritto queste righe, che oggi mi sono tornate in mente. Quest’anno ho un motivo in più per andare: sto solo aspettando che smetta di piovere, sto solo raccogliendo le forze per farlo, sapendo che quando mi troverò davanti a quella tomba – e sarà la prima volta – non farò altro che piangere come un bambino, o come uno che ha perso un amico e un pezzo della sua vita. Tutto qui.

    Me lo ricordo come se fosse adesso, anche se non lo saprei ritrovare. Era la primavera del 1996, e ci capitai per caso. Ero ad Atlanta, avevo una domenica libera e una macchina noleggiata. Mi svegliai all’alba, uscii da Buckhead e presi l’autostrada verso Memphis. Dopo un po’ mi resi conto che non sarei mai riuscito ad andare e tornare in giornata, e feci quel che faccio spesso a piedi: lasciai la strada principale, e iniziai a girare a caso. Ero entrato nel Tennessee, avevo spostato l’orologio per il fuso orario, e mi godevo l’enormità dell’America che toccavo con mano per la prima volta. Non so come, mi trovai di fronte a una high school chiusa per non so quale vacanza; parcheggiai e andai a farmi una camminata, calpestai il prato del campo di football, mi sedetti sugli spalti deserti guardando gli striscioni che incitavano la squadra della scuola. C’era il sole e un silenzio che ritrovai solo molti anni dopo, in una notte di inverno a Vipiteno. Andando a riprendere la macchina mi venne l’idea di fare altri quattro passi, senza nessun particolare motivo; e fu così che mi trovai in questo cimitero, che era un prato verde con le pietre messe probabilmente a caso, sfruttando le zone più lisce. Era un posto pieno di morti, e vivo al tempo stesso, come sono tutti i cimiteri a pensarci bene. Rimasi un po’, decisamente a lungo in considerazione di quanto era piccolo – un microscopico cimitero di un piccolo paese della profonda provincia americana – e rimasi semplicemente a godermi l’atmosfera. Poi, altrettanto semplicemente, uscii dal recinto ideale – c’era giusto una staccionata, e nemmeno lungo tutto il perimetro -, risalii sulla mia Corsica e andai verso Chattanooga.
    Non so perché racconto questa storia. Forse perché mi piacciono i cimiteri. Non c’è nulla di macabro, spero che sia chiaro: sono posti, come dicevo prima, a loro modo pieni di vita; un po’ quella che viene dalle parole e dalle fotografie sulle lapidi, un po’ quella che ti immagini tu guardando le fotografie dei defunti, i fiori e i piccoli oggetti che gli ancora vivi portano sulle tombe. Ne ho girati tanti, di cimiteri, in molti casi ci sono andato apposta: il First Cemetery di New Orleans, con le tombe degli italiani e della prima moglie del primo governatore della Louisiana, morta giovanissima di parto come mille altre ragazze degli inizi dell’Ottocento; il cimitero di guerra americano di Omaha Beach, con le migliaia di croci bianchissime e il rumore del mare che a qualche centinaio di metri batte il costone di sabbia e roccia; El Camposanto di Old Town San Diego, con le tombe dei ladri impiccati; il Monumentale di Milano, con la storia di una città che non c’è più nell’anima; i prati all’interno dei campi di Dachau e Mauthausen, che ricoprono le ceneri e le ossa di decine di migliaia di prigionieri, quando c’era ancora spazio per seppellirli; i cimiteri di guerra del parco di Trenno a Milano, di Fiesole, e quello di Merano, con le tombe dei soldati tedeschi in pietra più scura e quelle dei soldati italiani in pietra più chiara. Ci vado, nei cimiteri, perché mi piace quella specie di sospensione del tempo che ci si trova dentro, perché mi fermo a pensare o anche soltanto ad ascoltare un po’ di silenzio, perché raccontano dei vivi almeno quanto dicono dei morti.
    Forse so perché racconto questa storia; perché oggi è il giorno dei morti, e io accompagno mia moglie nel cimitero dove è sepolta buona parte della sua famiglia; la mia sta dall’altra parte del mare, in quell’isola dove non metto piede da quasi vent’anni. Ho girato tanto, e in qualche modo non sono mai tornato a casa, non ho mai visto le tombe dei miei nonni; sono molti anni che ci penso, sono molti anni che provo a immaginare come sarà quel momento: e chissà come sarà, perché alla fine è tanto più facile vivere la vita degli altri – e anche la morte.

    30/10/2010

    Quanto?

    Filed under: — JE6 @ 14:39

    E anche se basta camminare dieci minuti, attraversare la strada, anche se è solo questo, quanto può costare andare al cimitero?

    29/10/2010

    Io la musica non la capisco

    Filed under: — JE6 @ 18:00

    Io la musica non la capisco. La musica mi piace – poca – o non mi piace – molta di più. Ma non la capisco, non capisco perché ogni tanto, per dire, ci sono questi assoli da nulla che però sto lì ad ascoltarli e ascoltarli e ascoltarli – la chitarra di “See the Lights” dei Simple Minds, saran quindici anni che la ascolto e lo so benissimo che quello lì mica è un gran chitarrista, che quello mica è sto gran pezzo, eppure. Non lo so, a me la musica piacerebbe capirla di più, trovarci dei motivi che non siano l’epidermide, mi piacerebbe anche non avere questo carattere che mi sento la sensazione fisica della scarsa sopportazione quando arrivo al quarto brano e non c’è ancora nulla non dico di nuovo, che del nuovo o del vecchio non mi frega nulla, ma di bello, qualcosa che mi faccia battere il piede senza volerlo (e lo vedi, sempre lì siamo, mi piace – non mi piace), che poi è la stessa sensazione che provo quando in televisione passa, non so, Enrico Papi o Striscia la notizia o una roba così e allora ficco la testa dentro un libro o mi alzo dal divano e ritorno dopo un po’. C’è poi che della musica si discute, e si discute allo stesso modo della politica e del calcio e dei telefilm e della moda, si discute alla guelfi e ghibellini, ce la si prende perché la musica che ci piace siamo noi e se tu dici che una roba ti piace allora ti senti fratello e se tu dici che una roba non ti piace allora stai dicendo che sono un cretino e insomma quello che cantava che sono solo canzonette aveva ragione e torto al tempo stesso e io dovrei ricordarmelo un po’ più spesso, ascoltare e basta perché a volte uno manca di rispetto senza volerlo e per cosa poi, per una canzonetta, già, per quello e chissà se ne vale la pena.
    [Oh, poi: prendi la prima frase, e al posto di musica mettici, che ne so, arte, letteratura, sport, ci siamo capiti, funziona tutto sempre allo stesso, io funziono sempre allo stesso modo, purtroppo]