Una questione di tempo, di tempi
Io non è che ami più di tanto usare lo sport come metafora della vita, un po’ perché è troppo facile e un po’ perché è troppo difficile. E però a volte sembra quasi inevitabile. Della finale di Wimbledon di ieri ho visto poco, perché più passa il tempo e meno riesco a seguire le cose in diretta se c’è gente che mi interessa, per la quale faccio il tifo o provo simpatia, o rispetto, o affetto, o cose così. Ma in quel che vedevo c’era una cosa ben precisa, che non era gioventù contro vecchiaia, né arte contro forza. C’era l’essere in tempo, l’arrivare in tempo. Perché la vita spesso è quella roba lì, arrivare un momento dopo, cinque minuti prima, capire le cose troppo tardi, intuirle troppo presto (*). A volte sembra proprio una questione di tempo, di tempi, e nient’altro. E guardando l’immenso e amatissimo Roger Federer perdere di un nulla, di un respiro una finale che avrebbe meritato di vincere quanto il (quasi) altrettanto immenso Novak Djokovic che poi alla fine la coppa l’ha alzata per davvero mi è tornata in mente la frase fulminante di Shane Battier, un tipo dall’intelligenza persino superiore allo spaventoso talento datogli dai suoi genitori, uno che, con la lucidità di un filosofo greco o di una rock star, sa che “it’s better be timely than good“.
(*) Alessandro Baricco, più o meno, in una delle Palladium Lectures.