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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    01/05/2004

    Il Maurizio

    Filed under: — JE6 @ 21:25

    E’ diverso da tutti gli altri del biliardo, il Maurizio. O almeno, così sembra.
    E’ elegante, distinto, sobrio. Niente a che fare con gli addomi sfaldati, i gilerini infeltriti, le scarpe consumate, i congiuntivi dimenticati, le bestemmie sputate che riempiono la vista e l’aria della sala.
    Ma lui non fa pesare questa sua diversità. E’ uno degli altri, con una stecca nè brutta nè bella, piuttosto bravo ma non un campione, che preferisce giocare da solo ma se lo inviti a far coppia non ti dice di no.
    Non fuma, beve un bianco di tanto in tanto, non alza la voce. Sarà che fa un lavoro pieno di silenzio: è un cameraman della RAI, son tutti lì che muoiono dalla voglia di chiedergli di questo o di quel personaggio, dimmi se ha le tette rifatte, ma è vero che è un frocio, ma lui è riservato senza essere scostante.
    E allora, succede che gli altri, quelli con i gilerini infeltriti, quelli che parlano sempre a voce alta anche se non hanno niente da dire, gli riservano una stima quasi intimidita, di cui qui dentro godono in pochi.
    Adesso è lì, che sta studiando un raddrizzo a mezza forza, con i suoi pantaloni ben stirati e gli occhiali con la montatura nuova. Se vincerà non sarà un successo, se perderà non sarà una sconfitta. Intorno, il Maurizio non ha amici, ma gente che lo rispetta. Forse la sua vittoria è proprio questa.

    30/04/2004

    Il Giovanni

    Filed under: — JE6 @ 09:36

    E’ raro che passi nella sala dei biliardi. Il Giovanni è uno di quelli che arriva alle tre del pomeriggio, grazie ad una pensione concessa troppo presto e con troppa benevolenza, per mettere subito le gambe sotto il tavolo del ramino.
    Da lì si alza a sera, con la camicia stropicciata, il nodo della cravatta allentato, gli occhi rossi per le mille sigarette, le dita coperte di nicotina e della tipica patina untuosa delle Dal Negro passate di mano in mano per ore e ore.
    A volte, ma non più di una per pomeriggio, si alza per andare a pisciare dietro quella porta sulla quale sta una targhetta che, involontariamente ironica, recita “servizi igienici”. Si sgranchisce le gambe, butta l’occhio sul tavolo dove corrono le biglie e cadono i birilli. Ci vede ma non ci guarda. Noi ricambiamo, chè in una garuffa con taglio a tenere c’è – per noi – un’arte che gente come lui non sarà mai in grado di capire.
    Marmoreo, il Giovanni se ne torna al suo tavolo, a far girare le carte, a farsi cadere la cenere sui pantaloni, a perdere implacabile la sua pensione e chissà dove cazzo li trova i soldi per arrivare alla fine del mese, se ne torna alla sua vita per noi insensata ed inutile.
    A sera, ognuno se ne torna a casa propria. Noi, il Giovanni ce lo immaginiamo seduto davanti ad un piatto di pasta, in silenzio, chiuso a pensare a quando avrebbe dovuto tirare su il cinque di cuori e calare subito il tris e non l’ha fatto e vaffanculo quanti soldi ho perso, mentre la moglie accende la piccola televisione della cucina ed inizia, come ogni sera, a pensare a quanto le piacerebbe farsi scopare da uno, uno qualsiasi, uno purchessia degli attori di “Un posto al sole”.

    17/04/2004

    Il Marco

    Filed under: — JE6 @ 14:38

    Il Marco è l’uomo dietro al bancone. E’ quello che conosce tutti, che sa a chi servire il bianchino spruzzato e chi passare un Averna, che sa quando ti manca un solo bicchiere per ciuccarti definitivamente ma poi non sa dirti di no ed il bicchiere te lo fa bere lo stesso, che ti prepara la focaccia con il cacciatorino e non la fa bruciare, che non pulisce i cessi da almeno sei anni, che sui bicchieri lascia i segni del rossetto e nessuno capisce come cazzo è possibile se da queste parti non è mai entrata una donna fin dal primo giorno di apertura; è quello che, da quando ha sostituito il padre nella gestione del bar, ha messo su diciotto chili, che le patatine solo San Carlo, che ti tiene la stecca da conto nel retrobottega, che fa finta di non vedere che al tavolo d’angolo stanno girando milioni, è quello che ogni anno, un po’ per scelta e un po’ per obbligo, va in pellegrinaggio a Superga per rendere omaggio al Grande Torino.
    Il Marco è quello che se non ci fosse ce ne sarebbe un altro e per noi del biliardo non cambierebbe nulla, ma intanto lui c’è, ti segna altre due ore e tre birre sul conto, e insomma, il suo bar fa schifo ma a ben pensarci è tanto suo quanto nostro, e allora chissenefrega e Marco mi porti una rossa, una rossa gesucristo, ci siamo capiti?

    30/03/2004

    Il Roby

    Filed under: — JE6 @ 07:44

    Non sta simpatico a nessuno, il Roby.
    Perchè è giovane, perchè è bravo, perchè è molto bravo, perchè è un insopportabile sbruffone.
    Non parla milanese, e figurati, ha venticinque anni ed è di origine pugliese. Tira di stecca da quando aveva tredici o quattordici anni, ed ha passato sul tavolo molte più ore di quante ne abbia spese sui libri di scuola.
    Degli anziani se ne frega, per lui sono solo avversari, ai quali far pagare il biliardo e l’inevitabile saccenteria dell’età. Li prende in giro, a volte, quando mancano una biglia, quando rimangono scoperti per un giro e messa da otto punti, quando fanno fatica ad allungarsi sul panno verde per l’artrosi e la pancia. Loro lo odiano, ma non puoi rifiutare ad uno bravo – il più bravo del locale, e su questo non c’è dubbio – di giocare sul tavolo che vuole, dopo aver aspettato il suo turno.
    A volte gli capita di perdere. Capita a tutti, in fondo. E lui non si lamenta, non dice che è colpa del puntale vecchio, del gesso scadente, dell’umido, del caldo, delle stelle contrarie. Non concede soddisfazione, non ammette che l’altro è stato più bravo, una volta tanto. Se la prende silenziosamente con se stesso, poi gonfia il petto di quel corpo tozzo che si ritrova, se può si fa dare subito la rivincita, altrimenti attende tra una birra ed una sigaretta di rimettersi davanti alle biglie, e di farle girare come qui dentro sa fare solo lui, l’unico che si sia mai visto tirare tre volte di fila un sette sponde a marcare punti.
    Torna a vincere, allora, il Roby, che non ha amici ma solo gente di ogni età che gli sorride a denti stretti perchè è comodo vivere di luce riflessa. Alla fine della giornata, gli rimane sulle dita una patina di gesso, di saponaria e di fumo, e nell’anima l’amaro gusto della vittoria senza festa, come il patriarca di un romanzo che non ha mai letto. Con quello torna a casa, aspettando un altro domani senza allegria.

    21/03/2004

    Il Giannino

    Filed under: — JE6 @ 16:40

    Il Giannino arriva che è ormai sera, quando esce dall’ufficio.
    Appena entra nella sala, si accende la sigaretta, perchè qui i ministri ed i salutisti li schifano sul serio – el Sirchia? ma che vada a daa via el cu – e a lui non pare vero, dopo una giornata di astinenza, di potersi fare due tirate in santa pace.
    Il Giannino scambia due parole con il barista, passa attraverso i tavoli del ramino e si avvicina ai tavoli, dove si ferma a guardare. Non gioca, e non chiede di farlo, perchè ha una malattia che lo sta rendendo cieco. Fino ad un paio di anni fa, aveva la patente. Adesso, che ha delle lenti che neanche un telescopio, è costretto a girare su uno di quei trabiccoli con il motore di un vecchio Garelli. Quei pochi che lo conoscono e gli rivolgono la parola, lo prendono in giro per questo; lui ci ride su, a bocca storta, e se ne accende un’altra.
    Il Giannino si chiama davvero così, e chissà cosa gli passava in testa, a suo padre e sua madre. E’ minuto come il suo nome, nervoso e umorale. Se ne sta lì, a finirsi la giornata con la cicca in una mano ed un bianchino spruzzato nell’altra; quando è in forma, o quando ha il morale sotto i tacchi, ordina un Campari, il che non fa altro che renderlo ancora più euforico o ancora più triste, mentre sui tavoli si provano gli ultimi tre sponde del pomeriggio.
    Ha avuto tempi migliori, il Giannino. E’ stato un grande venditore, di sicuro, e se ci scambi due parole te ne rendi conto. Poi il divorzio, la malattia e la morte dei genitori, gli occhi ogni giorno un po’ più annebbiati, il lavoro che si fa difficile. Ma lui è ancora lì, giunco che si piega ma non si spezza, nei suoi vestiti stazzonati, macchiati di cenere e candeggina, i capelli radi e scomposti e la testa macchiata dalla tintura fatta in casa per essere ancora quello delle fotografie dei giorni belli.
    Il Giannino se ne va a casa verso le otto, quando il bar vive nel limbo, vuoto, mentre i giocatori del pomeriggio stanno mettendo le gambe sotto il tavolo per la cena e quelli della sera ingoiano in fretta gli ultimi bocconi per poi preparare le stecche ed iniziare il turno serale. Si fa offrire dal barista un’ultima sigaretta, sfoglia un giornale lasciato su un tavolo, strizzando gli occhi per intuire i titoli di prima pagina.
    Si infila il soprabito, poi esce, per andare a prepararsi due spaghetti conditi con una scatoletta di tonno. Lo aspettano due gatti, ed un televisore di fronte al quale si addormenterà vestito, con la cenere che cade lentamente dall’ultima sigaretta della giornata. La prossima, la fumerà domani sera, quando entrerà nel bar ed ordinerà un bianchino spruzzato.

    26/02/2004

    Il Gino

    Filed under: — JE6 @ 13:30

    Il Gino non è in grado di parlare italiano.
    Ci prova, si impegna, ma dopo quattro parole torna a O mia bela madunina. Se gli piazzi uno striscio col taglio a tenere, uno di quei colpi che lui proprio non sa fare, ti salta in testa che sembra Carlo Porta ubriaco.
    Non è un gran biliardista, il Gino. Eppure, è un’autorità, giù dalle parti dei tavoli. Sarà perchè ogni tanto si mette la giacca, sarà perchè arriva sempre in macchina – un’Alfa 33, ma almeno lui ce l’ha – o perchè ha una figlia laureata, sarà perchè nessuno l’ha mai visto senza il borsello, ma il Gino si distingue da tutti gli altri.
    Non dà confidenza ai giovani, anzi, li guarda con fastidio, perchè non sanno parlare e nemmeno capiscono il milanese, e poi han minga fa’ la guera; con lui, se non hai almeno quarant’anni o se non sai tirare il sette sponde e mettere giù almeno due birilli non giochi.
    Giù ai tavoli c’è sempre una cappa di fumo che fa lacrimare gli occhi, ed impregna i vestiti ed anche la pelle che poi chi le sente le mogli e le madri e le fidanzate, vaffanculo a loro, sì anche alla mamma.
    Però il Gino, anche dopo essere stato al tavolo per tre ore, quando indossa di nuovo la giacca ed imbraccia il borsello, profuma di Aqua Velva. Sarà per quello, che è un’autorità.

    05/02/2004

    L’Ambrogio

    Filed under: — JE6 @ 12:45

    Ai suoi tempi, l’Ambrogio doveva esser stato un buon giocatore. Nè troppo alto, nè troppo basso, buon tocco, discreto colpitore, capace di uscire dalle buche. Insomma, uno che se la giocava alla pari con molti.
    Non so che lavoro avesse fatto, l’Ambrogio. Ha la faccia da tranviere, ma per quanto mi riguarda è nato pensionato. E’ vedovo, l’Ambrogio, ed i suoi familiari sono i suoi compagni di stecca di ogni giorno, il Gino, il Tito, tutta gente che quando ti vede fare un tiro corto, uno di quelli giocati con il braccino, ti guarda con compassione e butta lì un “magna la micheta, fioeu” che gli spaccheresti la stecca in testa ma sai che hanno ragione.
    Con il passare del tempo, l’Ambrogio guarda di più e gioca di meno. Ed in tanti lo apprezzano, per questo: dignità, ci vuole, e non bisogna togliere spazio a chi sta meglio di te.
    Un giorno, l’Ambrogio non si presenta. Passa qualche ora, ed arriva il Gino, con il suo borsello e gli occhi rossi e gonfi. “L’Ambroeus l’è andà“. Ma come, cazzo, l’è andà?
    Eppure. Lo hanno messo nella cassa con la stecca al fianco. I suoi amici giurano che è vero, che da anni diceva che avrebbe voluto così. E lo hanno accontentato. Ciao Ambroeus, ti sia lieve la terra.

    30/01/2004

    Tre sponde

    Filed under: — JE6 @ 13:41

    Se si allontanasse, quella testa di cazzo e la sua sigaretta, che mi va il fumo negli occhi. Quanto sarà distante la biglia? Un metro, ma no, quaranta centimetri, non di più. Peccato quei cinque maledetti birilli, lì in mezzo. Gli omini, li chiamano, e quando li stendi diventano i cadaveri.
    Li odio e li amo, questi colpi. Tre sponde. Devi calcolare tutto, la forza, il punto di battuta sulla sponda corta, l’effetto ad aprire oppure a chiudere, la posizione del pallino, dove si fermerà la tua biglia dopo aver colpito la biglia avversaria, se mai la colpirà. Ah sì, perchè quella è l’onta massima, mancare la biglia, vorresti che il panno verde ti inghiottisse e non ti buttasse più fuori.
    Forza, allora, tanto non ho altre possibilità. Mi sdraio sul tavolo, la gamba sinistra quasi completamente distesa sulla sponda del tavolo, la mano sinistra che va ad appoggiarsi sul panno, una piccola montagna formata da indice-medio-anulare-mignolo, ed il pollice opponibile dei primati a fare l’incavo nel quale scorrerà la stecca. Socchiudo gli occhi, prendo la mira, cerco di immaginare che cosa succederà nei prossimi due secondi, se farò il tiro che strappa il cenno di approvazione dei vecchi del tavolo, o se manderò in vacca la partita e la reputazione.
    Mi viene in mente, scemo che sono, adesso che dovrei essere concentrato, mi viene in mente quel palazzo di Marrakech, dove mi hanno detto che è stata girata la scena dell’ottavina reale di “Io, Chiara e lo Scuro”. Cerco di pulire il cervello, di focalizzare lo sguardo solo su quel millimetro che dovrò colpire. Altri due, tre secondi, qualcuno nel frattempo si beve l’ennesimo bianchino della giornata, e tutti hanno vestiti e capelli impregnati di un fumo che non viene via neanche alla terza doccia, e qualche altro riceve una telefonata, eccheccazzo, almeno mettilo con la vibrazione, non rompere i coglioni proprio adesso.
    Sento il fruscio delle carte del ramino, a dieci metri di distanza, sento il colpo di uno striscio con taglio a tenere dal tavolo a fianco, sento la mano destra un po’ troppo rigida, riguardo la biglia e la punta della stecca, tiro indietro il braccio e poi lo muovo in avanti.
    Se si allontanasse, quella testa di cazzo e la sua sigaretta, che mi va il fumo negli occhi.