Greetings from Chicago 2013 – Milwaukee Avenue
C’è molto traffico sulla highway, mi dice il tassista, così farei un’altra strada, se per lei va bene. E per me va bene, ho un po’ di tempo, basta che non rimanere imbottigliati qui. E così usciamo dalle quattro o cinque corsie dell’autostrada, ed entriamo in una Chicago che non vedrei mai se non in un caso del genere. E’ la città delle case basse, delle vie larghe con lo spartitraffico fatto da un prato lunghissimo e largo e pieno di alberi, degli scuolabus gialli, è la città che poi a un incrocio si trasforma e diventa altro senza averci fatto passare da un confine, da una dogana – ora i messicani, con il tricolore e i ristoranti e i punti esclamativi rovesciati e i colori vivi e forti, e poi i polacchi – ma quanti sono i polacchi qui? – per non so quanti chilometri potremmo essere a Varsavia, ci sono vetrine dove l’inglese non compare nemmeno come seconda lingua, qui un avvocato, lì un parrucchiere, le salsicce e la wodka, c’è persino la stessa luce piovosa che ho trovato a Stare Mesto in una sera di febbraio. La via è sempre la stessa, è eterna questa Milwaukee Avenue che prima di portarti in aeroporto ti fa fare il giro del mondo spostandoti da un isolato a quello successivo e se il semaforo è verde non te ne accorgi neanche. Dopo i messicani e polacchi arrivano degli altri ispanici, ma in mezzo c’è una casa, un tenero centro comunitario curdo, che sta da solo in mezzo a sudamericani ed est-europei e quella casa sembra l’immagine perfetta di gente che ha un destino così, ramingo e vessato e solitario. Poi Milwaukee Avenue finisce, si trasforma in qualcos’altro, e un’altra volta cambiano le case, sono altri quartieri residenziali, tutto sembra più ricco e lindo eppure un filo meno vero, come se in certi momenti fossero un certo squallore o l’apparente fatica di arrivare alla fine del mese a rendere le cose più reali, o forse solo più vicine – là dietro l’ultima rampa, riprendiamo l’autostrada, which terminal sir?