Transistor
Tra la casa di mia nonna e quella di mia zia c’era una piccola via, una carrela come dicevano loro, lunga forse trenta metri. E per quanto fosse corta, questa via riusciva a fare una curva a gomito all’altezza del quale c’era una porta che per me dava sul nulla: era rossa, era sempre aperta e l’interno era un buco nero, dal quale non veniva fuori la luce di una lampada o di un televisore ma il suono di una radio. Quella specie di caverna era abitata da uno di quei personaggi che in città sarebbero stati dei barboni ricoverati sotto un ponte e che in paese erano invece semplicemente dei tipi un po’ tocchi da non disturbare. Penso di averlo visto una decina di volte in tutto, non riesco nemmeno a ricordarne il volto. Ma tutti sapevano che passava il suo tempo seduto vicino a una radio, e lo sapevo anch’io. Ascoltava stazioni misteriose: Praga per mia nonna era come il Borneo di Sandokan per me. Aveva un grosso apparecchio a transistor, di quelli che oggi si trovano in certi ristoranti che vogliono farsi chiamare trattoria e avere l’aspetto vintage. Quando ne vedevo uno restavo minuti interi a leggere i nomi di posti che chissà cos’erano, chissà dov’erano. Monte Ceneri, Beromünster, Bratislava. Qualcuno di questi poi sono riuscito, molti anni dopo, a capire cos’era, a vedere dov’era; molti altri invece sono rimasti dei puntini su un atlante o sullo schermo di un computer, e quando li vedo sento ancora i crepitii di quella radio sepolta nel buio, e penso che io di aerei ne ho presi tanti, ma quel contadino sardo, quel tipo un po’ tocco dal quale noi bambini era meglio se stavamo lontani, aveva viaggiato molto più di me.