Vivere per raccontarla
Avevo quindici o sedici anni la prima volta che ho preso in mano un libro di Gabriel Garcia Marquez, e da allora ho perso il conto di quante volte ho riletto Cent’anni di solitudine e Nessuno scrive al colonnello e la più bella storia d’amore di carta che io conosca – L’amore ai tempi del colera – e i racconti di Erendira e della sua nonna snaturata e tutto, tutto il resto. Ognuno ha le sue fissazioni, e i suoi amori: anche quelli che in società a un certo punto diventano quasi imbarazzanti, ma per piacere, Marquez, quello che fa ascendere le donne in cielo in mezzo a una nuvola di farfalle gialle, quello dei soli superlativi, ma hai presente DeLillo. Beh, chissenefrega. Per me Garcia Marquez è stato un sacco di cose, tutte belle e molte importanti; alla fine è stato quello che ha scritto la frase lapidaria che dieci anni fa ho messo come sottotitolo di questo blog – La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla – una frase che sembra l’esempio perfetto di quanto uno scrittore famoso possa tirarsela per giustificare il proprio stare al mondo e che invece è una delle poche verità che credo di avere imparato attraverso migliaia di prove quotidiane, l’ultima giusto un paio di giorni fa. E così Gabriel Garcia Marquez mi mancherà, mi mancherà come mancano le persone alle quali hai voluto tanto bene e hai continuato a volergliene, forse persino di più, quando le hai viste e sentite lontane, mischiate alle cento altre che si sono aggiunte a riempire la vita da sveglio; e non ho imbarazzo a dirlo: la vita è quella che si ricorda, i miei ricordi di lui sono tutti belli, e allora, ecco, ci siamo capiti.