< City Lights. Kerouac Street, San Francisco.
Siediti e leggi un libro

     

Home
Dichiarazione d'intenti
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

Talk to me: e-mail

  • Blogroll

  • Download


    "Greetings from"

    NEW!
    Scarica "My Own Private Milano"


    "On The Blog"

    "5 birilli"

    "Post sotto l'albero 2003"

    "Post sotto l'albero 2004"

    "Post sotto l'albero 2005"

    "Post sotto l'albero 2006"

    "Post sotto l'albero 2007"

    "Post sotto l'albero 2008"

    "Post sotto l'albero 2009"

    "Post sotto l'albero 2010"


    scarica Acrobat Reader

    NEW: versioni ebook e mobile!
    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione mobi"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione mobi"

    Un po' di Copyright Creative Commons License
    Scritti sotto tutela dalla Creative Commons License.

  • Archives:
  • Ultimi Post

  • Madeleine
  • Scommesse, vent’anni dopo
  • “State andando in un bel posto, credimi”
  • Like father like son
  • A ricevimento fattura
  • Gentilezza
  • Il giusto, il nobile, l’utile
  • Mi chiedevo
  • Sapone
  • Di isole e futuro
  • May 2024
    M T W T F S S
     12345
    6789101112
    13141516171819
    20212223242526
    2728293031  

     

    Powered by

  • Meta:
  • concept by
    luca-vs-webdesign

     

    01/09/2023

    Di isole e futuro

    Filed under: — JE6 @ 11:02

    Qualche sera fa ho sentito Filippo Tortu dire “Il mio amico Mario una volta mi ha detto che i galluresi amano vivere qualcosa di bello per averne nostalgia nel futuro”, e anche se i miei nonni avrebbero fatto fatica a considerare i tempiesi sardi come e quanto loro l’ho trovata una descrizione talmente bella da non aver bisogno di essere vera (e, tutto sommato, comunque lo è).

    20/07/2023

    Sulla mappa

    Filed under: — JE6 @ 15:53

    Sono seduto sul divano. Sto leggendo un libro nel quale si citano ossessivamente alcune vie di Sarajevo. Di una di queste credo, dalla descrizione, di aver capito in quale quartiere si trova; la cerco, e quando penso di averla individuata allargo un po’ lo zoom capendo che con ogni probabilità si tratta della via che l’uomo con il quale passai un pomeriggio di agosto in giro per luoghi di guerra mi indicò con un’urgenza speciale. La vedi, mi disse, vedi quelle due torri. Sì, gli risposi, credo di aver capito di quali palazzi parli. Abitavo nel primo, continuò. E un giorno dovetti andare insieme a mio fratello a comprare il pane. Sapevamo che c’era un cecchino appostato, ma non potevamo continuare a restare fermi a casa senza nulla da mangiare, così scendemmo e poi ci lanciammo di corsa verso il forno e immediatamente sentimmo gli spari e il rumore dei proiettili che ci inseguivano e rompevano l’asfalto a una spanna dai nostri piedi. Sembrava la scena di un cartone animato, disse. Poi fece una pausa, e concluse: forse voleva solo spaventare i nostri genitori che ci guardavano dalla finestra, altrimenti ci avrebbe ammazzati. Erano bravi, i cecchini serbi. Ritorno sulla pagina e realizzo che l’autore ha la stessa età dell’uomo con il quale passai un pomeriggio di agosto in giro per luoghi di guerra, e che abitava letteralmente a due passi da casa sua. Probabilmente frequentavano la stessa scuola, compravano negli stessi negozi, cercavano di farsi notare dalle stesse ragazze. Io, l’uomo con il quale passai un pomeriggio di agosto in giro per luoghi di guerra, l’autore. Due gradi di separazione.

    Mi capita spesso di leggere tenendo a portata di mano Google Maps. Villaggi, vie, laghi, strade, province. Mi piace collocare nel mondo i posti che non conosco, e soprattutto ritrovare quelli nei quali sono stato, e stupirmi di questo. E così ho una doppia storia delle mie visite, dei miei spostamenti: quella reale creata dal lavoro, dalle vacanze, dalle cose di tutti i giorni (o quasi: ma questa è un’altra faccenda); e quella dei libri. Che si mescolano, si sovrappongono e a volte diventano una cosa sola, e chissà che non lo sia veramente.

    13/06/2023

    Nulla da vedere

    Filed under: — JE6 @ 14:51

    Premo l’icona rossa che chiude la telefonata. Ho passato l’ultimo quarto d’ora a scambiare informazioni con il coordinatore di una missione umanitaria che sta per partire per l’Ucraina; gli ho raccontato della nuova procedura di uscita dalla Polonia, lui mi ha parlato dei programmi futuri – il ritorno a Kherson, la ricostruzione di un ospedale in una provincia limitrofa del Donbass, posti dove la guerra prende una consistenza del tutto diversa da quella delle regioni dell’ovest ucraino che abbiamo attraversato da nord a sud, luoghi dove ci sono i campi minati e cadono i missili e tutto è crivellato, devastato, sofferente.
    Di tutto questo non abbiamo visto nulla, perché nulla c’è da vedere: la guerra delle armi a Leopoli e sui Carpazi non è arrivata, se non nella forma sostanzialmente nascosta ai nostri occhi poco allenati e ai nostri piedi non autorizzati delle migliaia di feriti e mutilati che affollano gli ospedali non disponibili al fronte e delle molte altre migliaia di sfollati interni che all’ovest cercano sicurezza, casa e forse anche lavoro, tutte cose che là da dove sono scappati non sono più disponibili. Abbiamo visto – e alcuni di noi rivisto – una città che nel suo centro è più allegra e viva di molte delle nostre, dalla quale sono spariti la metà dei grandi generatori elettrici che qualche mese fa permettevano l’accensione delle luci e l’avvio delle macchine quando la stragegia russa era nella fase del “vi facciamo stare al freddo e al gelo”, un posto nel quale i pochi segni di guerra sono i sacchi di sabbia a protezione delle finestre dei seminterrati dei palazzi di una certa importanza e i blocchi di jersey all’ingresso di alcuni grandi viali di accesso al centro, cose che con un minimo di disattenzione potrebbero persino passare inosservate; nel nostro giorno e mezzo in Ucraina il solo brivido provato è stato l’alert di allarme aereo con richiesta di immediato riparo nei rifugi ricevuto mentre guidavamo in cima ai Carpazi, allarme rientrato dopo diciassette minuti – probabilmente quelli sufficienti alla contraerea di eliminare il pericolo.
    Mi sorprendo – e non è la prima volta – a fare i conti con qualcosa che non saprei come altro definire se non una specie di delusione che ricaccio sul fondo della mia cesta dei panni sporchi solo con un esercizio di razionalità. E’, questa sensazione, parente stretta di quella che un’amica descrisse bene dopo una serata passata in un centro di accoglienza per rifugiati: “è come se ci desse fastidio l’allegria di questi ragazzi, che hanno vent’anni e tutto il diritto di essere allegri anche se sono scappati da guerre e carestie, è come se per noi andassero bene solo quando sono piangenti, afflitti, emaciati; è come se pensassimo come si permettono di stare bene, non sarà che è tutta una presa in giro?”
    Mentre sto per rimettere il telefono nella tasca dei jeans arriva una notifica. Un messaggio, arriva da U., che dal suo paese in guerra è scappata prima per rientrare poi, che vive in una regione nella quale non si è mai combattuto, dove la morte ha preso la forma degli uomini coscritti e mandati al fronte ma non è arrivata nelle case dei civili, dove i campi possono ancora essere coltivati perché non sono stati riempiti di mine, dove i bambini vanno a scuola una settimana sì e una no perché le scuole sono state costruite in tempo di pace e le cantine non sono abbastanza grandi da accoglierli tutti quando suonano le sirene degli allarmi aerei. Mi chiede se sono rientrato, se è andato tutto bene. Le rispondo di sì e le chiedo di M. e V., i figli delle cui fotografie ho una grande cartella nel telefono; chissà come sono cresciuti dall’ultima volta che li ho visti di persona, le scrivo. Nell’italiano rugginoso dei traduttori online mi scrive “sono cresciuti non solo nel corpo, ma anche nella mente. I nostri figli sono stanchi della guerra, grazie alle restrizioni non c’è un’infanzia a tutti gli effetti”. Passano venti, trenta secondi e arriva un nuovo messaggio: “Ma siamo contenti di ogni giorno che viviamo, ora abbiamo valori completamente diversi nella vita”. Ripenso alla mia delusione, mi vergogno un po’ di me stesso e le scrivo di abbracciare i ragazzi da parte mia; poi, ritorno alla confusione del rientro e ai messaggi di lavoro che mi aspettano dalla settimana scorsa.

    07/04/2023

    Inevitabilmente

    Filed under: — JE6 @ 11:37

    Per me, la cosa oggi più interessante della querelle ChatGPT-Garante Privacy è ciò che ne sta fuori, a contorno, essendone al tempo stesso parte integrante.

    E’ l’atteggiamento verso il futuro, quella cosa che si diverte a smentirci quasi sempre e quasi comunque.

    Sono affascinato – e anche impaurito, un po’ – da chi arriva al domani nel segno dell’inevitabilità, come se il futuro fosse qualcosa che non possa essere guidato, almeno in parte, con tutti i limiti dei compromessi e delle lotte fra gli umani; e da chi pensa che il futuro sia sempre, ancora inevitabilmente, meglio del presente in tutto e per tutto, che il futuro sia sempre progresso e non evoluzione.

    24/02/2023

    La pace sembrava eterna

    Filed under: — JE6 @ 10:45

    Un anno fa, più o meno a quest’ora, stavo facendo una presentazione online a un manager padovano. Avevamo da poco sentito le notizie che venivano dall’Ucraina e cercavamo di farcene una ragione, di dare un senso a qualcosa che sembrava tanto enorme quanto incredibile. Poco dopo mi sarei fermato per qualche minuto e sarei andato a riguardare le foto fatte a Kiev nel 2017, gli enormi pannelli di Maidan che dicevano Freedom is our religion sopra il disegno di una grossa catena che si spezza e mi sarei trovato a pensare che, come qualunque italiano, ero stato in moltissimi posti che in passato si erano ritrovati più o meno devastati dalla guerra: in effetti in uno di questi ci vivo e me ne ricordo solo in qualche rara occasione, come quando passo per le Cinque Vie o vado in cima alla Montagnetta. Ricordo distintamente l’impressione che mi fece realizzare che in quel momento stavano cadendo missili in posti dove avevo fatto il turista meno di cinque anni prima (poi ok, già allora bastava fare un giro intorno all’Ukraine Hotel dove dormivamo per vedere centinaia di foto in bianco e nero di gente ammazzata a colpi di mitra giusto tre anni addietro: è che la pace sembra eterna).

    14/02/2023

    After all these years

    Filed under: — JE6 @ 12:33

    Se dovessi dire che mi ricordo per quale motivo ho aperto questo blog, mentirei. Credo – ma non ne sono sicuro – per un misto di curiosità, imitazione, inconsapevolezza; poi era una cosa che aveva a che fare con lo scrivere, attività che, a prescindere dai risultati, mi aveva sempre dato piacere.

    Comunque.

    Sta di fatto che ho scritto il primo post vent’anni fa. Vent’anni esatti, cosa che noto perché le cifre tonde hanno sempre il fascino perverso della perfezione estetica. In mezzo, quanta roba; niente di straordinario, nulla che sia passato alla storia, ma insomma le vite delle persone comuni sono così, importanti per chi le vive e irrilevanti per tutti gli altri. Tengo aperto questo posto senza uno scopo preciso: per affetto, forse, e anche perché sui tempi lunghi si finisce per fare il giro: vent’anni fa era “ah dai, interessante, hai un blog?” e oggi è “ah dai, interessante, davvero hai ancora un blog?”. E’ quello, il mio piccolo bar personale che ha un solo avventore, il sottoscritto: ne tengo orgogliosamente e pigramente immutato l’arredamento e ogni tanto vengo a controllare che sia tutto a posto, perché è un luogo al quale tengo. Per la rivoluzione, invece, mi sa che toccherà andare da qualche altra parte.

    08/02/2023

    A., che deve salire su un aereo

    Filed under: — JE6 @ 12:53

    A. ha tredici anni, i lineamenti fini, i capelli biondi e l’espressione vagamente malinconica che hanno i ragazzini costretti a fare i conti con una malattia, una cosa che a volte li costringe a stare seduti quando gli altri corrono o dire no grazie, non posso quando qualcuno gli offre un gelato.
    Ha passato l’ultimo mese a casa dei nonni, nella periferia milanese, insieme ai genitori e al fratello minore. Un posto dove, sono certo, non avrebbe voluto tornare: non così come ha dovuto farlo, per una visita di controllo e in attesa di salire su un aereo per andare ancora più lontano da casa sua, ancora più a ovest, in un posto dove non c’è la guerra e il padre ha trovato un lavoro. Quando mi ha visto si è alzato dal letto sul quale stava sdraiato tenendo in mano il telefono, l’unico – o almeno il più importante – contatto con il mondo in un paese dove, a parte i membri della sua famiglia, conosce solo una manciata di ragazzini con i quali ha imparato a comunicare a gesti: e quei ragazzini oggi vanno a scuola e quando finiscono hanno i loro impegni – il calcio, il nuoto, il catechismo, le ripetizioni: tutto tempo che non possono dedicare a A. e a suo fratello. Mi è venuto incontro e, come ha sempre fatto, ogni volta che sono andato a trovarlo durante i tre mesi del suo primo soggiorno italiano, mi ha abbracciato nel modo goffo che affligge i ragazzi della sua età: e io ho restituito l’abbraccio, ancora più goffo di lui, senza saper affrontare la differenza di altezza e l’indefinibile imbarazzo di queste situazioni.
    Poi ho parlato con sua nonna, ho bevuto il caffè che mi ha preparato sua mamma e il bicchiere di vodka che suo nonno mi ha come sempre imposto e ho spiegato a gesti a suo padre quando avrebbe dovuto tirare fuori dalla grande busta di documenti che accompagna la famiglia in questa emigrazione il foglio che autorizza il trasporto di certi medicinali. A. guardava con i suoi occhi chiari i biglietti aerei appoggiati sul tavolo; ho preso il telefono, ho aperto l’app di traduzione e ho scritto una domanda stupida, l’unica che mi è venuta in mente di fargli: “Sei contento di partire?”. Lui ha guardato lo schermo, le lettere del suo strano alfabeto, poi ha alzato il viso e ha fatto no con la testa. Lo ha fatto con il sorriso più triste che io abbia mai visto, quello di chi è abbastanza grande non per sapere, ma almeno per sentire cosa sta succedendo, cosa è già successo alla sua vita: sa che quella che ha vissuto fino a un anno fa, e che per qualche mese ancora ha sperato di poter tornare a vivere, è finita; quello di chi si vede strappato agli amici, alla scuola, alla canna da pesca e al pallone e al prato che circonda la sua casa nella provincia ucraina ed è certo che non tornerà più indietro. Cancello la prima domanda. Scrivo “Guarda che state andando in un bel posto, credimi” e se potessimo parlarci proverei a dirgli che non lo sto prendendo in giro, non lo sto illudendo, io in quella città ci sono stato tante volte ed è bella davvero, c’è lo stadio incastrato in mezzo alle case e c’è il mare e si mangia bene: e lui sorride ancora e non ha bisogno di parlare per farmi capire che non è che non mi crede, è che non gli interessa, non può essere un bel posto perché non è casa sua, non è dove lui vuole stare e diventare grande.
    Qualche minuto dopo saluto tutta la famiglia, uno alla volta. Ai due fratelli faccio vedere l’ultima scritta sullo schermo, quando arrivate fatemi sapere come state, scrivetemi, e loro fanno sì con la testa e poi in fretta riportano gli occhi sui loro telefoni, gli unici posti dove hanno il mondo, quelli dove si rifugiano dopo essere stati costretti a lasciare la loro casa e la loro vita dalla guerra, che li ha sfiorati con le armi e schiantati con la paura.

    26/01/2023

    Debito di ossigeno

    Filed under: — JE6 @ 12:04

    Rivedo Y. dopo sei mesi. Questa volta, insieme ai due figli, c’è anche I., il marito. Non l’ho riconosciuto, ma so che era lui l’uomo che nella sera fredda di Hlyboka di dieci mesi fa mi ha aiutato a caricare il furgone con i pochi bagagli che la sua famiglia estesa stava portando in fretta e furia fuori dall’Ucraina, ha salutato con un cenno i ragazzini infreddoliti e confusi, ha dato un bacio sulla guancia alla moglie seduta vicino al finestrino nella prima delle tre file di sedili e mi ha fatto un cenno come per dire “adesso tocca a te portarli fuori da qui, stai attento”. Ora si trovano di nuovo in Italia, tappa intermedia nel viaggio verso la Spagna dove un parente pare avere la possibilità di trovargli un lavoro e una casa lontani dagli allarmi aerei, dai licenziamenti, dall’energia elettrica che dopo tre ore si interrompe per quattro, dai soldi che una volta erano pochi ma bastavano e oggi che sono ancora meno non bastano più. I. dovrà trovare un lavoretto per un paio di settimane, forse un mese, il tempo sufficiente a tirare su la cifra che servirà a pagare quattro biglietti di sola andata con una low cost: gli ultimi risparmi sono serviti a pagare il viaggio fino a Milano, a bordo di uno dei pullmini che hanno continuato a fare la spola fra l’Ucraina e il resto dell’Europa, su ogni strada e con ogni tempo. Prima di salutarci vedo il video di un gruppo di soldati riuniti dentro un bosco a festeggiare il Natale: stanno in piedi, recitano qualcosa che sembra una preghiera, hanno volti seri ma non impauriti. Lo vedi questo, dice S., la mamma di Y.: è mio fratello, ora sta nell’esercito, qui sono a Bakhmut. Quella Bakhmut, chiedo io. Quella, risponde lei, ingoiandosi le maledizioni che ha in bocca. Mi chiedono se so cosa si deve fare per trasportare in aereo l’insulina di cui ha bisogno A., il figlio maggiore. No ma mi informo, state tranquilli, non sarà un problema, rispondo. Quando esco mi ritrovo a pensare che una guerra si può provare a vincerla in tanti modi, e che uno di questi è tirare via l’ossigeno di una famiglia come tante, come questa.

    16/01/2023

    Killing fields

    Filed under: — JE6 @ 16:44

    C’è questa mostra fotografica, al Mudec di Milano. Le immagini sono di Robert Capa, fotografo di guerra. Perché quello fece, quello fu praticamente per tutta la sua breve vita: guerra sino-giapponese, guerra di Spagna, Seconda Guerra Mondiale dalle battaglie nordafricane a quelle dell’avanzata alleata in Italia allo sbarco in Normandia alle macerie della Germania rasa al suolo; e l’Ucraina dopo il passaggio nazista e quello dell’Armata Rossa, la prima guerra fra Israele e i paesi arabi, e l’Indocina francese dove morì a quarant’anni saltando su una mina. Dicono che dopo l’esplosione teneva ancora la Contax II stretta nella mano sinistra. Una quantità di foto che hanno fatto la storia, dal miliziano spagnolo colpito alla testa al contadino siciliano che indica la direzione a un soldato americano, dalla corsa dei marines nell’acqua di Omaha Beach ai guerriglieri vietnamiti che sfilano indifferenti a fianco di un cadavere messo di traverso sul sentiero che stanno percorrendo. Non importa se alcune di queste immagini furono staged, costruite, messe in scena: non si rovina una buona storia con la verità, lo sappiamo da tanto tempo. E comunque, sono tutte immagini perfette, anche quelle tecnicamente sbagliate perché scattate in condizioni precarie, in fretta e con attrezzature non paragonabili a quelle odierne: in ognuna ci trovi qualcosa che viene da lontanissimo, dall’abisso nel quale siamo forse nati tutti, noi, i nostri padri, i padri dei nostri padri e così a risalire: lui per certo, ebreo ungherese fuggito dall’Europa antisemita nella quale gli era toccato nascere. Sarà che è un periodo un po’ così, la guerra che conosciamo tutti, quella che ho sfiorato andando due volte in Ucraina, non lo so: dalla mostra sono uscito sfinito senza aver fatto altro che camminare e ogni tanto commentare con mia moglie quel che avevamo davanti agli occhi. Mi sono aggrappato a una delle poche immagini serene di quell’interminabile carrellata di morte, quella di un gruppo di ragazzini cinesi ritratti dall’alto mentre giocano a palle di neve. Se ne vede uno che alza il volto verso il cielo, le braccia aperte come per abbracciare qualcuno che da quel cielo sta scendendo, gli occhi chiusi, il sorriso più gioioso che si possa immaginare: solo, nella sua bolla di felicità, che novant’anni dopo sembra di poter ancora toccare stando attenti a non romperla.

    15/12/2022

    On this day

    Filed under: — JE6 @ 15:09

    A volte arriva da Google, altre da Amazon, altre da entrambe: è la notifica “in questo giorno, l’anno scorso o dieci anni fa, hai scattato questa foto”. Ogni tanto non riconosco i posti: un po’ è l’età, un po’ è che certi scorci si assomigliano tutti fra di loro – le case a graticcio, i ponti con i lucchetti, i campanili contro i cieli grigi -, un po’ è che magari in certi posti mi sono fermato giusto il tempo di un caffè e di una foto senza il tag geografico, non abbastanza per lasciare traccia. Più spesso mi ricordo molto bene dov’ero, perché, cosa stavo facendo in quel momento e mille altri dettagli che hanno senso solo per me. E, spesso in quel più spesso, la notifica è una piccola ferita, un dolore minuto ma reale, concreto: non perché i ricordi siano brutti, anzi. Proprio per il motivo opposto, perché vedere una foto che ho preso a Montreal o sulla strada tra Foggia e Lucera mi fa sempre pensare e io quando ci potrò mai tornare a Montreal o sulla strada tra Foggia e Lucera e allora chiudo tutto, e cerco di pensare ad altro.