Ventuno biglie reloaded
Ieri sera è finito il mondiale di snooker al Crucible di Sheffield. Ha vinto un giocatore straordinario, ed è consolante vedere che ogni tanto la pura grazia prende forma umana. Un paio d’anni fa scrissi questa cosa qui, so che usare lo sport – come molte altre cose e attività – come una metafora della vita è spesso una sciocchezza ma il fatto è che oggi quel post lo riscriverei uguale, e così lo rimetto qui sotto. E intanto, grazie Ronnie.
C’è questo gioco, questo tipo di biliardo. Si chiama snooker, se tra i mille canali che il vostro decoder vi mette a disposizione c’è anche Eurosport allora sapete cos’è. Io passo delle ore a guardarlo – d’altra parte c’è chi si stende sul divano a vedere Glee e chi lo fa per guardare Santoro e Travaglio, quindi c’è chi sta messo peggio. Mi piace, tanto. Non è solo l’estetica di questa enorme prateria verde sopra la quale vedi quindici punti rossi e altri sei di altrettanti colori diversi, e la mano che si appoggia sul tappeto e si piega e si adatta fino a quando la stecca non scorre liscia e dritta nell’incavo tra il pollice e l’indice e le altre tre dita disegnano un ventaglio come quelli che ti vendono sulla scalinata dei giardini del palazzo reale di Madrid. No, non è solo quello. Mi piace la filosofia del gioco, la lenta e paziente e noiosa edificazione del finale – imbucare una biglia rossa e poi una colorata, una rossa e una colorata, per quindici volte, fino a quando ti rimangono le sei colorate che vanno imbucate secondo una rigida regola di successione dei colori, mi piace questa metafora della costruzione delle fondamenta, lunga e faticosa e ogni tanto premiata dalla soddisfazione di un’imbucata particolarmente difficile – come se fosse, chessò, la laurea. Se sbagli, se manchi una buca, ti devi fermare; vai a sederti, e aspetti, come quando a Monopoli devi andare in prigione, e guardando il tavolo sembra di vedere quelle case di certi paesi del Sud, lasciate a metà perché sono finiti i soldi e chissà se verranno mai completate. Lo snooker funziona che fino a quando un giocatore imbuca senza errori, l’altro sta a guardare, e può persino capitare che uno non giochi proprio se l’altro infila una serie perfetta: anche questo mi piace, mi piace questa metafora della vita, quest’alternanza di ciò che fai tu e ciò che fanno gli altri in una specie di celebrazione dell’impotenza, o quantomeno dei limiti di ciascuno. Ed è vero che molto sta a come tu sai giocare le occasioni che ti si propongono, e che molto sta a come tu vivi e accetti le cose che succedono; però le telecamere indugiano sui volti di quelli che in quel momento sono i perdenti, costretti all’immobilità sulla loro sedia d’angolo, con il bicchiere di acqua ghiacciata sul tavolino dal quale bevono anche se non hanno sete: non importa cosa traspare da quei volti, alcuni sono sereni, altri impassibili, altri furenti, altri tristi, altri increduli – loro semplicemente non possono fare nulla, quel che succede sul tavolo, la loro stessa sorte non dipende da loro ma da un’altra persona, e quante volte questo succede nella vita lontana da quel tavolo, aspetti e aspetti e ti prepari alla tua occasione, per poi capire che i risultati non dipendono da te. In questi giorni si sta disputando il campionato del mondo, lo giocano al Crucible di Sheffield e anche quella sarebbe una gran storia da raccontare, ma per fortuna ci ha pensato Richler e vi basta spendere una decina di Euro per leggerla; volevo dirvelo, se avete Eurosport fermatevi quando vedete quel rettangolo verde con ventuno biglie appoggiate sopra, e due uomini che ci girano intorno – che quei due lì siete voi, siamo noi.