Quelli che partono da soli
Quelli che partono da soli non sono tutti uguali. E non importa quanto il viaggio che li aspetta è lungo, e dove li porta. Alcuni da soli non ci sanno stare: e allora si inventano telefonate che non farebbero mai, sì ho mangiato un panino al bar tu come stai ti chiamo appena arrivo, e poi scrivono mail e mandano messaggi, tutto pur di stare con qualcuno. Sono quelli che sul treno non hanno sonno ma cercano di addormentarsi, e quando non ci riescono si alzano e vanno al bar. Poi ci sono quelli che da soli ci stanno, e bene. E sbrigano le ultime cose, le telefonate che devono fare e le mail che devono spedire, e prendono posto e non chiudono gli occhi, ma guardano – guardano fuori dal finestrino, e le facce di chi gli sta intorno. Quelli che partono da soli e sanno starci hanno sempre qualcuno che li cerca, e a loro non dispiace, sanno che è bello, e anche giusto. Ma gli bastano la pianura fuori dal finestrino, le nuvole fuori dall’oblò.
(Questa mattina ho ritrovato una foto, scattata da qualche parte della Union Station di Chicago. Su un muro si vede la scritta Amtrak, quella dei treni. Ma ho il ricordo che quella sia la sala dove si prendono e recuperano i bagagli anche dei pullman, dei Greyhound. C’è un uomo con un cappello da cowboy, una camicia scura e una maglia della salute bianca. Ha i tratti somatici di un ispanico, un giornale appoggiato vicino alla gamba e una piccola borsa morbida nella quale sta cercando qualcosa. Mi chiedo ancora oggi dove stesse andando – El Paso, Amarillo, Phoenix – quante decine di ore e migliaia di chilometri avesse davanti. Aveva la faccia di uno che bastava a se stesso, di uno che sapeva viaggiare da solo; e io avrei voluto viaggiare con lui, stando a distanza, e guardandolo per tutto il tempo)