Dimmi com’era
Per motivi che sarebbe fin troppo lungo, e comunque – almeno qui – irrilevante spiegare, in queste settimane ho parlato a lungo con tre persone. La più giovane è nata il due gennaio del millenovecentotrentotto. Mi sono fatto raccontare di quando erano bambini, di come vivevano nei loro paesi della Sardegna, del Friuli, della Lombardia. Di come si guadagnavano da vivere, del loro lavoro.
Poi, qualche giorno fa, un po’ per caso e un po’ no, ho trovato questa frase che Primo Levi scrisse nell’appendice all’edizione scolastica di “Se questo è un uomo”: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.”
E’ una frase che vale per molte cose e situazioni della vita, vale quasi sempre per le cose lontane da noi, nel tempo o nello spazio. Vale, molto spesso, per le piccole storie dei piccoli mondi dai quali veniamo, quelli delle nostre famiglie: dei nostri genitori, dei nostri nonni o bisnonni. Soprattutto oggi, che il mondo cambia così rapidamente che fatichiamo a riconoscere quello di quindici o venti anni fa: pensa a quando avevi in casa il telefono fisso con la rotella bucata, attaccato al muro; poi metti la mano in tasca e tocca lo smartphone, del quale oggi non sapresti fare a meno. Per dire.
E’ anche una frase che va capita, e messa nel suo contesto. Levi la scrisse riferendosi all’esperienza del lager e dell’Olocausto. Una cosa talmente enorme che davvero si può dire che “comprendere è impossibile”. Forse, nella maggior parte dei casi, è però più giusto dire che “comprendere del tutto, fino in fondo è impossibile”. Ma capire si può, almeno un po’. C’è, ad esempio, una cosa che credo di aver capito io, parlando con quelle tre persone. Credo di aver capito qualcosa che ha a che fare con me, con le persone della mia età, più che con loro. Credo di aver capito che, un tempo, per quasi tutti il lavoro era lavoro, punto. Una cosa che molto spesso costava fatica e che veniva fatta per vivere, o sopravvivere. Poi certo, se era un lavoro che ti piaceva eri contento, ma difficilmente affrontavi la vita cercando, perseguendo quella forma di soddisfazione. Io, invece. Noi, invece, siamo cresciuti con l’idea che avremmo dovuto fare un lavoro che ci piaceva, che ci gratificava. Siamo cresciuti con l’idea che questo fosse un nostro diritto, che ci saremmo e avremmo dovuto realizzarci attraverso il lavoro. E’ una cosa che ci siamo potuti permettere grazie a loro, perché invece di doverci preoccupare di mantenere una famiglia avevamo una famiglia che ci manteneva.
Poi credo di aver capito un’altra cosa, parlando con quelle tre persone. Credo di aver capito che nell’arco di una vita anche le persone più normali si trovano a essere, a volte per scelta e a volte per caso, speciali. E infatti sono certo che se al posto loro ci fossero stati altri tre, se invece di un carabiniere, di una tabacchina e di un falegname avessi parlato con uno spazzacamino, una mondina e un camionista sarebbe stata la stessa cosa, altrettanto bella – credo, e spero. E infatti, parlare con loro e farmi raccontare le loro storie è stata la cosa più bella che ho avuto la fortuna di fare da molto tempo a questa parte.