La fine di un giorno
Sono giorni un po’ così, di tanto lavoro e poco tempo non tanto per fare, ma per pensare altro. Però leggo (e guardo una vecchia serie con cinque anni di ritardo, ma quella me la tengo per la prossima volta), e qualcosa resta. Restano due frasi di Gipi nell’intervista che ha dato all’Huffington Post:
Non potevi semplicemente spegnere il telefono?
Se fosse così facile i proprietari delle piattaforme non sarebbero multimiliardari. I social network sono ingegnerizzati per agevolare il conflitto. Il conflitto genera “engagement” come lo chiamano loro. Il tuo tempo, in parole povere. Quel tempo viene poi convertito in tariffe per gli inserzionisti. I social sono costruiti in modo che, se non hai un carattere forte, possono renderti una persona peggiore. E più tempo ci stai, e più diventi peggiore. E più diventi peggiore, e più fai fatturare soldi. Sono un’impresa che funziona alla perfezione, fondata essenzialmente su una malattia.
Qual è la malattia?
L’esigenza di esprimere la propria opinione su qualsiasi argomento, di processare, giudicare, mettere all’indice qualcuno, ogni giorno della settimana.
E resta una frase di Jenny Erpenbeck, in un libro strano, affascinante e scritto benissimo che nella traduzione inglese dell’originale tedesco si intitola “The End of Days”:
The end of a day on which a life has ended is still far from being the end of days.
Magari non è molto, lo so. E però.
March 4th, 2021 at 09:49
[…] che odiate casa vostra, per esempio, che odiate Proust e i libri e i social (c’è qui una cosa importante, a questo proposito) e la didattica a distanza, che non vi interessa la frugalità, ma […]