La suora
Sono in piedi, fermo proprio sulla linea gialla che ti dice “sei fai un altro passo sei morto”. Volto lo sguardo verso il display che indica fra quanti minuti arriverà il prossimo treno, leggo “1 minuto” e riabbassando lo sguardo la vedo. Credo che sia lei, anzi ne sono sicuro anche se non la vedo da non so più quanto tempo. Scavo nella memoria alla ricerca del nome, rimanendo indeciso tra Paola e Alessandra; non che sia molto importante, visto che ci saremo scambiati la parola tre, forse quattro volte finchè lei è rimasta ad abitare in quartiere: sono le cose che capitano con le sorelle degli amici dell’amico, compagnie diverse, età diverse, scuole diverse. Tutto diverso, visto che lei, qualcosa come venticinque anni fa, si è fatta suora. Saliamo sul vagone, e faccio in modo di poterla guardare senza che lei mi veda. Osservo il suo abito nero, il velo che le cinge la testa, la piccola croce appesa al collo, le scarpe. Credo che una suora potrebbe essere riconosciuta solo guardandole i piedi, perchè non mi viene in mente nessun’altra donna che decida coscientemente di comprare un paio di mocassini con il tacco basso, la punta larga e un indefinito colore tra il nero e il marrone, un paio di scarpe che dicono a nome di chi le indossa “non mi interessa piacere, anzi: non voglio piacere; devo solo servire, fare il mio lavoro”. Lei indossa quel tipo di scarpe. Mi pare di ricordare che sia missionaria in Africa – quelle notizie che ti danno i genitori per fare un po’ di conversazione alla fine di un pranzo domenicale, e immagino che ora si trovi a Milano per far visita a un genitore malato, o qualcosa del genere – e sono certo che là dove vive, Camerun o Nigeria o Angola, quelle stesse scarpe che io qui noto per la loro totale mancanza di fascino sono considerate – posto che lei le indossi – come qualche mia amica qui fa nei confronti di una Manolo Blahnik. Torno a osservarle il voto, vedo l’attaccatura dei capelli ormai tinta di bianco, osservo la sua espressione sicura, dolce e smarrita al tempo stesso, come se si stesse chiedendo cosa ci fa lì, sotto terra, dentro un treno in compagnia di duecento perfetti sconosciuti, come se avesse nostalgia del suo villaggio, della foresta, della lingua che ha imparato in tanti anni, forse persino della paura dei guerriglieri e dei predoni, come se avesse nostalgia di casa, insomma. Arrivato alla mia fermata, scendo chiedendomi chi fra me e lei scambierebbe la sua vita con quella dell’altro, e la risposta è purtroppo fin troppo facile; esco dal vagone augurando a Paola (o Alessandra, chissà) tutta la fortuna del mondo, e cerco di dimenticare il suo viso e le sue scarpe più presto che posso.
April 19th, 2009 at 15:52
🙂
April 21st, 2009 at 07:39
Si chiamava Paola. Non so perché, ma sento che è così.