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18/03/2011
Devo andare in un’università a parlare di lavoro. Del mio, e di quello che fanno i miei colleghi. Il che da una parte mi obbliga a capirlo, il lavoro dei miei colleghi – tutti, e non solo quelli con i quali ho a che fare quotidianamente. Ma dall’altra mi costringe a capire il mio: o meglio, a trovare le parole giuste per descriverlo, e mi rendo conto che la cosa non è facile. Siamo ormai in tanti a fare lavori vaghi, forse perché le dieci o dodici ore che ci dedichiamo ogni giorno vengono riempite da cento cose diverse, spesso legate tra loro in modo molto lasco. Non è questione di precarietà o meno, la differenza in questo caso non penso che venga fatta dalla tipologia di contratto che si ha avuto la fortuna di spuntare – è proprio il cambiamento delle cose che facciamo: senza sciocche venerazioni per i nobili mestieri del tornitore e del panettiere, c’è questo aver a che fare con cose che tanto spesso hanno la consistenza di quella che qui a Milano chiamiamo fuffa – i social network, i “Mario Rossi è diventato fan di (azienda a caso)”, i business development, i mobile contact strategy, i data mining analytics. A volte penso che se i nostri clienti vedessero il dietro le quinte delle presentazioni che gli facciamo, le riunioni che le precedono, allora sì che ci sarebbe da ridere. Non perché non prendiamo sul serio quel che facciamo, ma perché quando ci parliamo fra di noi sappiamo essere “terra terra”, e a volte ci capita anche di essere capaci di chiamare le cose con il loro nome. Poi penso che loro non sono messi meglio di noi, e che gli uni e gli altri alimentiamo una finzione di parole della quale siamo reciprocamente consapevoli, e allora pari e patta, va bene così. Solo che un giorno devi andare in un’università a parlare di lavoro, del tuo lavoro, e ti rendi conto che fai troppa fatica a cercare le parole giuste, e ti chiedi se questo non sia un segno dei tempi del quale avresti volentieri fatto a meno.
17/03/2011
E’ in fondo abbastanza ironico che la festa per l’unità d’Italia, con le bandiere e l’inno e l’elmo di Scipio arrivi nel momento di massima stanchezza per ciò che l’Italia stessa è diventata. Ché questo tocca fare, quando si festeggiano i compleanni: guardarsi allo specchio, e pensare: a ciò che si è fatto, a ciò che si è. E quel che siamo lo vediamo tutti i giorni, un paese che convive serenamente con, e persino coltiva la sfiducia in se stesso. Quel che ci salva, ci han detto fin da piccoli, è la nostra capacità di cavarcela, di venire a patti con tutto e tutti: l’arte di arrangiarsi, la chiamano. E così ci arrangeremo, per altri dieci, venti, cinquant’anni, e alla festa per il duecentesimo anniversario arriveremo così, come oggi, dando una passata di ferro da stiro alla bandiera comprata il giorno prima al supermercato, uguali a noi stessi, e chissà che in questo non vi sia da trovare qualche soddisfazione.
16/03/2011
Una decina di giorni fa, subito dopo aver finito il primo reading della mia vita, mi hanno presentato una signora. Le ho stretto la mano, lei ha ricambiato, piccola e sorridente, e mi ha detto “grazie, mi è piaciuto molto, io non viaggio – sa, ho paura dell’aereo – e così oggi ho visto dei posti attraverso le cose che lei ha scritto”, e in quel momento ho pensato che si scrive davvero sempre per qualcuno, solo che a volte quel qualcuno non lo conosci, e te lo trovi di fronte, per caso, quando meno te lo aspetti.
Allora ho pensato a un’altra cosa, a questo questo blog che seguo, e che mi piace moltissimo. Forse perché, nonostante tutto, il treno è ancora il mio mezzo di trasporto preferito. Parla, per immagini, di stazioni; e di treni, appunto, e di persone. Quando arriva un post nuovo mi fermo a guardare la foto, e fantastico un po’. Oppure ricordo. Così sono andato a smuovere le carte che ho sulla scrivania, a casa, ne ho tirato fuori un libriccino marrone, piccolo, che sulla copertina ha una data scritta a penna, una data ormai molto lontana, e insieme al libriccino ho ripescato un piccolo quaderno di appunti, dove ho segnato, con una scrittura che non ho più, treni e stazioni e persone di un’estate altrettanto lontana. Ho aperto un file che stava nell’hard disk da molti mesi, l’ho riguardato, l’ho ripulito, e ho ripreso a scrivere.
15/03/2011
Non ricordo dove ho visto questo servizio televisivo, col giornalista che intervista un vecchio deputato della Lega (Alessandro Cè) e un ancor più vecchio direttore de “La Padania”, e questi che ricordano i tempi in cui Silvio Berlusconi era, per Umberto Bossi – e quindi per la Lega tutta – un mafioso, un pericolo per la democrazia, uno entrato in politica per l’esclusiva cura dei propri interessi. Poi le cose cambiano, ed ecco il matrimonio che regge a qualsiasi attacco e intemperie, indissolubile a dispetto di qualsiasi previsione. Lì per lì, guardando quel servizio, mi dicevo beh, d’accordo il Bossi che avrà avuto – e tuttora avrà – i suoi interessi, ma quelli che lo votano, quelli che l’Umberto el g’haa semper resun, come fanno a essere così ciechi e smemorati, come fanno a non ricordarsi di aver sputato sul loro unico e vero alleato fino a dargli del delinquente (e ad averlo scritto a caratteri cubitali, nove colonne in prima), cosa gli ha fatto cambiare idea. Poi ho pensato che basta guardarsi in giro, e a volte allo specchio, che questa è pratica comune della gggente, nel lavoro, nelle cose private, senza alcun senso non dico della memoria ma quantomeno del ridicolo, la gggente che è quella che davvero ha ciò che si merita, e ho girato su ESPN America, Ginobili chiama il pick and roll, penetra, scarica, tiro da tre, canestro.
13/03/2011
Mi piace, quando posso, venire al Bagno 51. Non ha nulla di particolare, se non il portare, insieme al numero il nome dei miei genitori, e forse è quello che me lo ha fatto notare e reso simpatico quando mi hanno trasferito qui poco più di un anno fa. Esco dall’ufficio, dico ai colleghi che no, non vengo a mangiare, sono a dieta, e mi faccio due passi sulla spiaggia. Fino al Bagno 51. Oggi è una giornata grigia ma non fredda, l’inverno sta finendo, anche se a fatica. Vicino alla riva vedo seduto Paolo, il figlio dei due gestori. Ha otto anni, lo so perché qualche volta ho scambiato due parole con suo padre e sua madre, e ha la stessa età di mia nipote. Mi avvicino, lo saluto, come mai non sei a scuola, gli chiedo, stanotte non sono stato molto bene, la mamma mi ha fatto restare a casa per riposare un po’, risponde. Sta a gambe larghe, con due secchielli, due setacci e una paletta che occupano lo spazio tra le ginocchia. Io mi accuccio vicino a lui, non mi siedo perché non voglio riempirmi di sabbia i jeans, per un po’ resto in silenzio, ogni tanto guardo il mare fermo e di piombo, ogni tanto guardo lui che riempie la paletta di sabbia e la fa passare attraverso il setaccio che copre il secchiello più grande. Cosa fai, gli chiedo, lo vedi, risponde lui, sì lo vedo, e restiamo ancora un po’ in silenzio. Faccio passare la sabbia attraverso il setaccio, dice lui d’improvviso, e perché gli chiedo io, perché nella sabbia ci sono delle cose belle, dice lui senza guardarmi mai in faccia, intento nel suo lavoro. Perché hai due secchielli, gli chiedo ancora, e lui non risponde, fa passare un dito sulle maglie del setaccio che copre il secchiello grande, ho due secchielli perché ho due setacci, dice senza alzare gli occhi, e perché hai due setacci, gli dico rendendomi conto che non gli sto parlando come a un bambino di otto anni ma come a un uomo anziano e saggio, lui prende tra le mani il primo setaccio e lo rovescia delicatamente sul secondo, che ha le maglie più strette, e rimangono solo una piccola conchiglia rosacea e un sasso tondo e liscio, che pare fatto di alabastro, altrettanto piccolo. Perché così rimangono le cose più preziose, dice con la voce bassa. Ma non sono così belle, dico io, e mi sento stupido nel momento stesso in cui ascolto la mia voce, cosa voglio fare, polemizzare con un bambino di otto anni, fare il bastian contrario, ma perché, ma lui sembra non curarsene, dice solo sono le cose più preziose. Sento alle nostre spalle la voce di Anna, la madre, chiamare Paolo per il pranzo, io giro la testa, le faccio un cenno di saluto con la mano, lei sorride e mi chiede se voglio entrare nel locale a bere un caffè, io le dico no grazie, molto gentile, la prossima volta, guardo l’orologio, ho tempo per fare ancora due passi prima di rientrare in ufficio, allungo la mano verso la testa del bambino per arruffargli i capelli mentre si sta alzando, poi la ritraggo, lo guardo prendere lo conchiglia e il sasso tra pollice e indice della mano destra e appoggiarli con cura sul palmo della mano sinistra, arrivo mamma dice, ciao Paolino ci vediamo presto, stai bene, lui mi guarda e finalmente sorride, ciao, vado a mangiare.
12/03/2011
Quel che la frega, la gente, non è la sua incoerenza. E’ la buona memoria. Altrui.
10/03/2011
Alle quattro del pomeriggio si ritrovano, come richiamati da una inudibile campanella. Hanno finito i compiti, e ci sono ancora tre ore di luce e caldo da sfruttare, prima di dover rientrare a casa, e lavarsi, e prepararsi per la cena. Ci sono tutti. C’è quello piccolo, il più piccolo, di età e statura, ma che ha coraggio da vendere e si mette in porta e si tuffa e esce in scivolata in mezzo ai piedi di gente grossa il doppio di lui e quando una pallonata gli ha quasi spaccato il setto nasale ed era una maschera di sangue ha chiesto giusto cinque minuti di pausa, è tornato in casa, al sesto piano, si è lavato in fretta ed è tornato giù di corsa, ci sono, sono a posto. C’è quello indolente, che tocca bene il pallone ma non ha voglia di correre, è mancino e sta lì, sulla sinistra, a crossare che sembra Mario Corso. C’è quello bello come il sole, biondo, con gli occhi azzurri che le mamme quando lo vedono dicono tutte che sembra Paul Newman anche se lui non sa chi sia. C’è quello matto, che loro un po’ lo prendono un po’ in giro e un po’ ne hanno paura, che ci vuole niente che ti tiri un pugno da farti secco ma quando gli lanci il pallone là, lontano verso l’area avversaria non ti devi più preoccupare perché corre più veloce di Mennea, è un ghepardo dal naso di aquila, dai che sei solo. C’è quello alto e secco che la palla come la prende di testa lui non c’è nessun altro, la chiama alzando il braccio e quella arriva e lui salta e per un secondo tutti stanno fermi a guardarlo mentre sale in cielo e i capelli si muovono e gira il collo e la fronte colpisce in pieno quel pezzo di cuoio gonfio e graffiato. C’è quello che non gioca né meglio né peggio degli altri, è solo un onesto terzino destro, ma con le parole è il più bravo di tutti, e gli altri gli chiedono per piacere se va a mettersi in piedi là su quella panchina sotto gli alberi al bordo del campo pietroso, dai fai la radiocronaca, e glielo chiedono convinti, glielo chiedono anche se mandarlo su quella panchina significa essere dispari e giocare con uno di meno, non importa perché come le racconta lui le partite non le racconta nessuno, usa parole che loro non conoscono, che li fanno sentire grandi e importanti e allora non sembra di stare in un rettangolo di quaranta metri per venti chiuso tra i palazzi di nove piani, ma a San Siro, al Maracanà, all’Azteca, e lui vorrebbe giocare ma sa che i suoi compagni lo ammirano per quella capacità e allora sale sulla panchina e Ameri a te la linea. Ogni tanto passa una ragazzina, quella con i capelli lisci e lunghi della sezione D, la conoscono tutti perché disegna in un modo fantastico, ogni tanto nel cortile della scuola, durante la ricreazione si siede per terra nell’angolo vicino alle finestre della cucina, si appoggia sulle gambe incrociate un quaderno nero ad anelli con i fogli di carta spessa e porosa e inizia a disegnare, a volte ritratti, a volte il panorama dei grattacieli che dividono il quartiere dal parco, qualcuno passa e sbircia e la saluta e lei non risponde, ogni tanto passa vicino al campo dove loro giocano, fa un cenno con la testa e un sorriso timido e bello, parte un cross dalla sinistra, e i capelli mossi salgono verso il cielo, gol, scusa Ciotti mi inserisco dal Comunale di Torino.
09/03/2011
Uno dei pochi vantaggi del tempo che passa è che a volte ti capita di tornare nei posti, in posti che conoscevi, dai quali magari manchi da tanto tempo. Anche nella tua stessa città, quella dalla quale non ti sei mai staccato. C’è una specie di slargo in via Lamarmora, qui a Milano. Un negozio di cancelleria, che oggi che si è ammodernato offre anche l’accesso a Internet. Poi il marciapiede torna a stringersi. Ecco, proprio lì c’è un palazzo bellissimo, di due o tre piani, costruito in uno stile che io non conosco perché non ho studiato, i balconi tondi e morbidi, e dei fregi, una pietra chiara con delle venature calde che devono essere belle anche quando Milano è grigia di inverno e freddo e umidità, e pensa oggi che fa caldo e c’è il sole. Mi sono fermato a guardarlo, quel palazzo, poi ho pensato a quanti anni erano che non passavo in via Lamarmora – una trentina, forse. Mi sono girato, ho guardato il grande portone di legno con il fregio che lo sormonta, da quel portone è entrato e uscito mio padre una vita, Terzo Battaglione Carabinieri “Lombardia”, e mi sono ricordato tante altre cose. Ma questa è un’altra storia, che non si racconta qui, non oggi.
08/03/2011
Il tagliando per i veicoli commerciali Fiat, a centocinquanta euro, per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Il pernottamento in camera doppia a Borgo Lanciano, con ricca prima colazione e cena di quattro portate, per il tricolore italiano. E così via, ad libitum sfumando, fino a che ti vien voglia di cercare Calderoli, abbracciarlo forte e dirgli “scusami, avevi ragione tu”.
Ciao, mi chiamo Silvio Berlusconi e a tempo perso faccio il Presidente del Consiglio. Vedi che ho perso un dentino? Ma io non mi preoccupo, sai. Perché questa notte, prima di andare a letto lo metto su un fazzoletto, lo copro con un bicchiere e poi vado a nanna. Domani mattina quando mi sveglierò troverò i soldini sul comodino, proprio a fianco del bicchiere, e sarò felice.
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